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il potere non vuole scherzi. L'attualità del romanzo di Milan Kundera negli anni di Trump
La storia mostra il suo volto grottesco, dove il comico diventa l’ultima forma di resistenza alla tragedia. Come ne "Lo scherzo", il romanzo dello scrittore ceco, che svela le ambiguità del potere, il ridicolo del tragico e la libertà nascosta nel comico
E se la Storia scherzasse? Prendiamo Donald Trump: lo scorso 15 agosto, conclusosi il faccia a faccia con Vladimir Putin in Alaska, dichiara al mondo che sono stati fatti “grandi progressi, ci siamo quasi”. Putin dice dell’Ucraina: “Siamo popoli fraterni”. Torniamo indietro di dieci mesi, quando il candidato Trump prometteva: “Chiuderò la guerra in Ucraina in 24 ore!” (Donald Trump viene eletto presidente degli Stati Uniti). Qualche mese dopo: Donald Trump comincia con una certa insistenza a far sapere in giro di gradire un eventuale Nobel per la Pace (lo avrebbe candidato, chissà perché, il governo del Pakistan). Arriviamo al 18 agosto, Washington: Trump che ai leader europei dice: “Putin vuole negoziare la pace per me, è pazzesco!” (Forse, chi può dirlo, nel settembre del 1938 a Monaco, Mussolini disse a Chamberlain e Daladier la stessa cosa: “Capite? Hitler vuole negoziare la pace con la Cecoslovacchia per me, è incredibile!”). E se davvero la Storia fosse tutto uno scherzo? Andiamo a controllare il vocabolario: “Scherzo: l’atto, il fatto di scherzare, di parlare cioè o di fare qualcosa mostrando di volersi divertire e di non dare alle parole o alle cose il significato e il peso che hanno usualmente”. Le parole, appunto, la merce più a buon mercato in circolazione: “pace”, “tregua”, “cessate il fuoco”, “negoziati”, “garanzie”, “confini”, “democrazia”, e ancora pace, pace inzuppata in tutti gli aggettivi: “giusta”, “duratura”; e perché non, già che ci siamo – come per altro già il buon vecchio Kant auspicava – una pace perpetua?
Esattamente sessant’anni fa, nell’estate del 1965, in un piccolo appartamento di Praga, un poeta, drammaturgo e professore della scuola nazionale di cinema lavorava di cesello intorno al torsolo di questa parola; Milan Kundera, nato a Brno, 36 anni, stava scrivendo il suo primo romanzo, il cui titolo era già deciso: Lo scherzo. Lo avrebbe terminato pochi mesi dopo, a dicembre. Ludvík, il protagonista, colui che da studente aveva scritto una cartolina scherzosa alla sua innamorata in cui esaltava Trotsky e per tale ragione era stato espulso dal Partito comunista e dall’università, finendo poi in un campo di correzione e quindi cinque anni in miniera, riflette: “Come mi sarebbe piaciuto revocare la storia della mia vita! Ma che potere avevo di revocarla se gli errori dai quali era sorta non erano stati errori soltanto miei? Chi aveva sbagliato, quando lo stupido scherzo della mia cartolina era stato preso sul serio? Chi aveva sbagliato, quando il padre di Alexej (oggi, del resto, riabilitato già da tempo, ma non per questo meno morto) era stato arrestato e incarcerato? Quegli errori erano così quotidiani e comuni che non rappresentavano affatto un’eccezione o uno ‘sbaglio’ nell’ordine delle cose ma, al contrario, costituivano essi stessi quell’ordine. Ma allora, chi aveva sbagliato? La storia stessa? Quella divina, quella razionale? Ma perché, in fondo, considerarli suoi errori? Appare così solo alla mia ragione umana, ma se la storia ha realmente una ragione, perché mai dovrebbe essere una ragione che si preoccupa della comprensione umana, una ragione con la serietà di un professore? E se la storia scherzasse? E in quel momento mi resi conto di quanto fosse impotente il mio desiderio di revocare il mio scherzo, quando io stesso e tutta la mia vita eravamo compresi in uno scherzo molto più vasto (per me senza fine) assolutamente irrevocabile”.
Il romanzo uscirà in Cecoslovacchia due anni dopo, nel 1967, nella fase distensiva che precede la Primavera di Praga, poi soffocata dai carri armati sovietici. Il libro viene infatti ritirato dal commercio e Kundera, che da giovane era stato un fervente comunista poi espulso dal partito (come il suo protagonista) viene inserito sulla lista nera dei dissidenti da tenere d’occhio. Nel 1969 l’editore francese Gallimard pubblica in Francia La plaisanterie con una celebre prefazione endorsement del poeta Louis Aragon (e in quella prima versione esce subito anche in Italia da Mondadori, passando per lo più inosservato). Aragon giudicò Lo scherzo “uno dei maggiori romanzi del secolo” non tanto per i meriti letterari (che pure riconosce) ma per una qualità ulteriore. Scriveva: “E’ probabile – ma secondo me non c’è dubbio – che il lettore di questo libro trovi la chiave di ciò che lo storico ignora, o nasconde. Un romanzo, si dirà.
La verità non esce sempre nuda dal pozzo nel quale si cerca di trattenerla. Oggi è di moda denigrare questo genere letterario. E tuttavia Lo scherzo dimostra che il romanzo è indispensabile all’uomo come il pane. Mi si consenta dunque si parafrasare, per questo libro, quel che diceva Plutarco, contrapponendo il biografo allo storico: ‘Spesso un fatto, una parola del tutto comune, un semplice scherzo, permettono di conoscere un personaggio meglio dei combattimenti più sanguinosi, meglio di assedi memorabili’”. Aragon, che a Praga nel 1963 aveva assistito alla pièce di Kundera I padroni delle chiavi e, comunista anch’egli, dopo il 1956 era stato un critico severo dei crimini staliniani, riassume lo spirito del romanzo nella sentenza: “Il potere fa sempre fatica a sopportare lo scherzo”. Non deve stupire la lettura squisitamente politica del romanzo da parte del poeta francese che aveva diretto per anni il quotidiano comunista Ce Soir. Il tempo però ci ha detto che il discorso di Kundera andava più in profondità in quel pozzo e le verità che ne ripescava erano più complesse, e forse non del tutto digeribili (o intellegibili?) da chi leggeva il suo romanzo attraverso la lente dell’ideologia.
Kundera non racconta la storia di un eroe che si oppone al regime comunista seguito al colpo di stato del febbraio 1948 in Cecoslovacchia, bensì la storia di un totale, assoluto antieroe, un personaggio che l’esser stritolato da un meccanismo inesorabile (la Storia) non trasforma automaticamente in una vittima. Non è un caso che, nel racconto, torni ciclicamente, quale simbolo di questa presa di posizione, la figura del martire comunista Julius Fucík, l’autore del Reportage scritto sotto la forca e della proverbiale frase pronunciata in punto di morte: “Che la tristezza non sia unita al mio nome”. Una frase che riecheggia, molto tempo dopo, nell’adagio dell’esule poeta russo Josif Brodskij: “Non bisogna mai sentirsi una vittima, anche quando si è una vittima”. Kundera stesso, riparato con la moglie in Francia dal 1975, privato della cittadinanza cecoslovacca, non voleva in alcun modo appartenere al cliché dell’esule e per non dover recitare quel ruolo a partire dal 1985 interruppe i rapporti con la stampa diventando un fantasma (il doloroso, conflittuale, cervellotico ruolo del “dissidente-non-dissidente” è ben raccontato attraverso voci e fonti di stampa francesi in L’esilio di Milan Kundera a Parigi di Enrico Galimberti, appena pubblicato da Transeuropa). Insomma, Kundera, fin dal suo primo romanzo, edifica la propria letteratura su un postulato di ordine morale: non bisogna sentirsi vittime, perché farlo è semplicemente ridicolo. Ma come rappresentare una sottigliezza del genere? Nello stesso modo del suo conterraneo Franz Kafka, che per Kundera è a tutti gli effetti un autore comico e non tragico. Non solo: bisogna farlo senza dover aspettare il tribunale degli storici (lo sapeva anche Charlie Chaplin, il quale girò Il grande dittatore nel 1940).
Quanto a Kundera, tutte le sue opere maggiori si possono leggere come una riflessione e un’indagine sulla comicità: Amori ridicoli (il ridicolo del sesso quale surrettizia schermaglia di potere), Lo scherzo (il ridicolo di una vita gettata via per una insulsa frase scritta per sedurre una ragazza), Il libro del riso e dell’oblio (la ridicola pretesa delle dittature di voler cancellare l’evidenza, come una faccia scancellata da una fotografia), L’insostenibile leggerezza dell’essere (il ridicolo di pensare che la felicità dell’amore, e della vita, e della politica, si possano misurare in termini di fedeltà e di infedeltà), L’immortalità (la ridicola speranza delle immagini di poter resistere al trascorrere del tempo). Per Kundera lo spettro della risata cosmica si cela dietro gli eventi e li rivela per quello che sono in effetti; il romanzo, scrisse, è “l’eco della risata di Dio”. Due momenti sono il fulcro dello Scherzo. Quando nella colonia penale (travestita da servizio militare di reietti, i “neri”), il nuovo severissimo comandante chiede a un commilitone di Ludvík, l’artista Cenek, di disegnare un murale che rappresenti l’Armata Rossa e il suo legame “con la nostra classe operaia e la vittoria del socialismo”. Il comandante non sa che Cenek ha una grossa passione per le donne nude; il disegno, molto grande, vede un soldato russo in abiti pesanti e tutte intorno a lui “otto o nove donne nude”. Il comandante, ovviamente, chiede spiegazioni. Cenek non vedeva l’ora di illustrare: “Qui (indicò il sergente) è raffigurata l’Armata Rossa; al suo fianco (indicò la mogliettina dell’ufficiale) è simboleggiata la classe operaia e qui, dall’altro lato (indicò la compagna di scuola), abbiamo il simbolo del mese di febbraio…”. Il soldato indica poi altre donne nude (“vittoria, libertà, uguaglianza…”) e in fine: “Qui (e indicò la mogliettina dell’ufficiale che mostrava il sedere) si vede la borghesia che esce dalla scena della storia”. Il comandante non ride.
Ludvík, che ha perso quindici anni della sua vita a causa della cartolina “scherzosa”, sogna di vendicarsi dell’ex amico che, nel processo, girò il pollice condannandolo come paria, e lo fa seducendo la moglie, Helena, senza sapere però che lei e il suo “nemico” non sono più una coppia (lei infatti si innamora di Ludvík, lui la lascia, lei tenta il suicidio ma sbaglia e assume dei lassativi). Ridicolo è pensare di correggere ciò che è stato, di fermare la macchina del tempo: ed è già qui, nello Scherzo, che Kundera gioca col titolo del romanzo che vent’anni dopo gli darà la fama mondiale: “Camminavo sulle pietre polverose del selciato e sentivo la pesante leggerezza del vuoto che si stendeva sulla mia vita”. Da quella “pesante leggerezza” l’antieroe Ludvík è schiacciato per un semplice, disarmante motivo: non ha capito. Credeva di far ridere ma, dice Kundera, niente è più triste di una brutta barzelletta. “Fui preso da un’ondata di rabbia verso me stesso, verso la mia età di allora, verso la mia stupida età lirica, quando l’uomo è ai propri occhi un enigma troppo grande per potersi rivolgere agli enigmi che sono fuori di lui”. Eppure, Lo scherzo, che Adelphi ha da poco riportato in libreria in edizione tascabile nella traduzione di Antonio Barbato (controllata parola per parola a suo tempo da Kundera), anche se parrebbe, non è solo un bellissimo romanzo sulla giovinezza schiacciata dal peso della Storia, ma è il romanzo che oggi più di allora ci racconta, come disse Aragon, ciò che lo storico ignora, o nasconde. Lo scherzo è un romanzo che cataloga uno a uno tutti i componenti di cui è costituto il peso di quella lastra di marmo: i pifferai magici del populismo (il crimine di chi parla “in nome del popolo”); la falsa solidarietà di qualsivoglia “collettivo” che si erge a tribunale dei tradimenti altrui (“oggi mi viene da ridere pensando a tutto quello che poi abbiamo tradito…”); l’odio come facile collante della tirannide (“Mi irritò che l’odio comune verso Alexej cancellasse di colpo tutti i vecchi conti in sospeso tra lui e loro (…). Del resto, non è forse molto più comodo odiare insieme con un comunista potente chi non ha alcun potere, piuttosto che il contrario?”).
Ma ci sono altre due questioni per cui Lo scherzo, letto oggi, risulta sorprendentemente attuale: il destino di una nazione (di una lingua) allorquando viene invasa o negata, e quale tipo di dolore e quali conseguenze comporti per le generazioni future (e per Kundera la Cecoslovacchia ha sempre simboleggiato il destino di tutte le piccole nazioni i cui confini non possiamo dare per scontati e che, nel loro incerto avvenire, ci interrogano sul destino stesso dell’Europa). Infine, Kundera prefigura la morte del pensiero originale, dello humour, perpetrato dalla realtà ridotta a meme: “Interi secoli e interi millenni cominceranno allora a cadere dalla loro memoria, secoli di quadri e di musica, secoli di scoperte, di battaglie, di libri, e sarà un male perché l’uomo perderà la coscienza di sé mentre la sua storia, incomprensibile e incontenibile, si rattrappirà in abbreviazioni schematiche prive di senso”. Ed ecco allora Donald Trump accogliere il presidente di un paese da tre anni in guerra rimproverandolo per il modo in cui è vestito. Ed ecco il medesimo presidente del paese in guerra (invaso, migliaia di morti) che si ripresenta mesi dopo da Trump indossando una giacca da cameriere. Morale kunderiana: il ridicolo è il vero volto del tragico. Ma l’unico modo per scongiurarlo è il comico, ultimo, disperato baluardo della libertà.

l'editoriale dell'elefantino