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la mediazione americana

Cosa succede se Trump si stufa di fare il peacemaker tra Russia e Ucraina?

Giulio Silvano

C'è chi vede segnali positivi e chi teme che l’Ucraina possa finire sacrificata sull’altare dell’ambizione personale del presidente americano. Il suo approccio personalistico e imprevedibile rischia di crollare se perde interesse o viene deluso da Putin. Interviste

Abbiamo visto in questi giorni un Donald Trump ondivago, quasi camaleontico. Accoglie Vladimir Putin in Alaska col tappeto rosso e invita nello Studio Ovale Volodymyr Zelensky facendogli i complimenti sul suo completo nero. “Il presidente è orgoglioso del suo approccio personalistico alla negoziazione”, dice al Foglio Benjamin Jensen, esperto di difesa e geopolitica del think tank Center for Strategic and International Studies. “Vuole conoscere le persone, e questo è un approccio sensato anche se esce dalle norme diplomatiche, e nel caso di Putin significa foto imbarazzanti con un criminale di guerra. Ma questo non vuol dire che sia cattiva politica”. E, aggiunge il professore di studi strategici: alla fine “il presidente americano ha ottenuto più di quanto non gli venga dato merito. Anche se non sappiamo come andrà, c’è un momento di slancio, e la Russia ora è sulla difensiva diplomatica”.


Interpellato dal Foglio, l’ex ambasciatore degli Stati Uniti in Polonia Daniel Fried è meno ottimista, dice che nessuno sa se continuando con quest’approccio, un misto di “adulazione e pressione”, Trump “si renderà conto che Putin lo sta prendendo in giro, e se magari, alla fine, contrattaccherà in qualche modo”. Fried, veterano del dipartimento di stato, che ha lavorato sotto Barack Obama come coordinatore delle sanzioni, dice che di fondo “Trump condivide la visione di altri presidenti statunitensi, cioè che lui, e solo lui, può convincere un dittatore russo a ragionare. E penso anche che Trump tenda a prendersela con la parte più debole e, in questo caso, ha identificato il debole con Zelensky. Ma Trump non vuole esser preso in giro, e non vuole apparire debole. Se Putin continua a esagerare e sopravvalutarsi, rischierà di alienare Trump”. Per ora però, il fascino del “tough guy” sembra avere la meglio. A una settimana dall’incontro in Alaska le parti, e soprattutto la Russia, non sembrano più vicine di prima ad accettare un cessate il fuoco, tantomeno un accordo più solido verso la pace. Anzi, la Russia continua a colpire con missili e droni il territorio e i civili ucraini. Quando l’inviato speciale americano Steve Witkoff ha detto che Putin era d’accordo con le garanzie Nato per l’Ucraina, il ministro degli esteri del Cremlino brandizzato Cccp, Sergei Lavrov, ha risposto brutalmente che non era vero. Sentito dal Foglio, l’ex diplomatico britannico di lungo corso, Tim Willasey-Wilsey, dice che da questi incontri, “lo scenario migliore sarebbe se Trump si rendesse finalmente conto che Putin non è interessato al compromesso. E dovrebbe annunciare nuove sanzioni e aumentare la fornitura di missili per la difesa aerea all’Ucraina”. Il professore di studi militari al King’s College continua dicendo che, a meno che questo scenario si realizzi, “per l’Ucraina ci sono solo rischi in questo processo”, perché ci sono buone possibilità che Trump annunci prima o poi un accordo che “obblighi l’Ucraina a cedere dei territori”.

Trump sogna un Nobel per la pace, e un modo per assicurarsi il paradiso, ma non bisogna dimenticare, come sottolinea Fried, che oggi una gran parte del mondo Maga è tornata a una tradizione isolazionista, “indifferente alla sicurezza europea e a volte solidale verso Hitler”. Il mondo trumpiano è pieno di putiniani e se Trump si stufa di giocare a fare il  peacemaker, tutto crolla da un giorno all’altro perché non ha intorno persone dedicate alla libertà dell’Ucraina. Jensen vuole sottolineare che la cosa è più complessa, e che rientra nel generale “cambiamento strutturale e generazionale che stiamo vivendo, simile a quello che si è visto alla fine del 20esimo secolo”, e aggiunge che “la democrazia è messa alla prova a livello globale, ma resisterà se ci si impegna in un dialogo aperto e onesto tra le parti”. 


Sia Jensen che Fried sono convinti che l’Europa risulti, in queste settimane, più unita dopo la visita dei leader nello Studio Ovale. “Però”, spiega Jensen, l’idea di un Europa che obbliga gli Stati Uniti a fare qualcosa “non funziona, sia a livello personale che strutturale. Il miglior approccio è quello di trovare interessi comuni. Una politica della pressione psicologica tra Washington e Bruxelles è destinata al fallimento”. Jensen è convinto che ora ci sia bisogno di uno scambio crescente tra Unione europea e Stati Uniti a tutti i livelli: di governo, diplomatico e tra autorità militari, che devono “risolvere i dettagli tecnici su quali saranno le garanzie di sicurezza, e come si possano collegare al più ampio processo negoziale. Il fatto che Washington e Bruxelles parlino di garanzie di sicurezza è una grande vittoria”.