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Il racconto
Buche di potere. Ecco come il presidente finlandese ha conquistato Trump
Il golf è l’arma di Alexander Stubb per contagiare l’agenda trumpiana. I destini della Nato rotolano sul green
Per raccontare come Alexander Stubb, presidente della Finlandia, sia diventato l’interlocutore più cercato da Donald Trump, il preferito negli incontri internazionali, destinatario di telefonate quotidiane, anche notturne, fornitore di pareri su Europa e Russia, mediatore con gli altri europei, si può partire dal golf, inteso come sport, o dalla posizione geografica della Finlandia, dai suoi più di 1.300 chilometri di frontiera con la Russia, confini spostati e rispostati decine di volte durante la secolare contrapposizione tra i finlandesi e i russi, con i sudditi del granducato di Finlandia inseriti per secoli (dopo essere stati cristianizzati un po’ controvoglia attraverso una delle crociate promosse dalla Svezia, verso la cui influenza culturale e tentativi di assimilazione hanno sempre resistito) tra le popolazioni appartenenti ai domini svedesi come avamposto verso est, poi consegnati alla Russia con un paio di trattati seguiti a sconfitte svedesi e quindi dall’epopea della resistenza finlandese di fronte alla protervia russa, fino alla conquista dell’indipendenza, un’affermazione storica ottenuta quando la Russia bolscevica aveva altre priorità e poi ripersa nei frangenti terribili del patto tra nazisti e sovietici, e riconquistata anche sfruttando impensabili alleanze estemporanee e combattendo fin dopo il 1945.
E si può partire da una storia nazionale fatta di amore per la propria condizione peculiare di coltivata estraneità rispetto a tutti i vicini (con una lingua di ceppo uralico, a differenza di tutti i paesi dell’area, tranne l’Estonia) e poi, rovesciando a fatica questa impostazione, con il passaggio a una scelta consapevole, ragionata, politicamente caratterizzante, a favore dell’adesione all’Unione europea e, recentemente, anche alla Nato. In tutto questo c’è un tratto di caparbietà, imprevedibilità, perfino spregiudicatezza, che potrebbe avere un fascino sulla personalità trumpiana. Potrebbe essere un raro caso di geopolitica sensata e quasi interessante. Tutto storicamente fondato, affascinante, sublime, un tremendo racconto di lotta, di identità, di resistenza.
Ma è meglio volare bassi, partire dal golf e non allontanarsene per un po’. Ricordiamoci che abbiamo a che fare con Trump e non vale la pena di complicare troppo le cose. Anche perché una premessa serve e un po’ ci allontana dalla semplificazione. C’è che Trump non ha mai dato prova di quella notevole capacità umana visibile nel saper ammirare chi ha una maggiore abilità in un qualche campo, chi sa fare qualcosa meglio di noi. Mai lo si sente lodare o esprimere sincera volontà di emulazione, se non per corrivi vantaggi politici e sempre verso persone da blandire o già in suo potere e da lui controllate.
Diversi racconti e testimonianze un po’ pettegole vogliono che la sua stessa corsa alla presidenza sia nata dalla scarsa considerazione ricevuta in alcune occasioni pubbliche e da qualche battuta di scherno lanciata verso Trump dal giro obamiano e clintoniano. Sembra più, il suo, il profilo dell’invidioso aspirazionale, e non quello di chi con matura generosità e con intelligente distacco da sé sa riconoscere le qualità e le capacità altrui. Succede anche nel golf. Un libro ha raccontato come Trump usi arrotondare (sempre al ribasso, quindi a suo vantaggio) il conto dei colpi, e sistemare la pallina magari con un calcetto quando la trova messa male (una regola fondamentale del golf è che la palla va giocata esattamente come e dove si trova sul terreno senza modificare l’ambiente circostante). Oppure come avvenga che trovi la sua pallina quasi miracolosamente dopo averla spedita in mezzo a erbacce e cespugli (un’altra regola stabilisce penalità in caso di palla persa, ma tenendone in tasca una uguale a quella giocata possono avvenire ritrovamenti straordinari). Mentre, e si tratta di risultati che hanno legami con quanto scritto appena sopra, non si contano le sue vittorie nelle gare e nelle partite giocate su qualche campo di sua proprietà, tra amici e ammiratori, e riconosciute con premiazioni, applausi e diffusione della notizia. Vittorie degne di un Faust minore, malinconiche, insoddisfacenti.
Ma poi arriva Stubb. Le vicende della politica fanno in modo che questo centrista conservatore, con tendenza liberale, brillante e ottimista tragico (perché tragica è la storia della Finlandia, con suo padre e suo nonno nati entrambi in città finlandesi diventate poi russe per via di annessione), diventi presidente della Finlandia il primo marzo del 2024. Un tipo interessante perché forgiato attraverso vere vittorie e vere sconfitte politiche, soprattutto quando si intestò l’iniziativa di portare la Finlandia nella Nato e fu più volte battuto dagli isolazionisti, cioè da un’altra squadra di conservatori, e questa è una delle ragioni politiche che lo hanno portato a elaborare una forma di conservatorismo aperto all’Europa e al mondo e di esserne il principale e originale interprete, con qualche analogia, o piuttosto qualche utile spunto da cogliere, anche per l’esperimento di europeismo da destra in corso in Italia.
Ma torniamo al golf, da cui ci aveva allontanato lo slancio biografico politico e la curiosità per il personaggio. Una quarantina abbondante di anni prima altre vicende ne avevano fatto un appassionato di golf. Con una buona propensione naturale a colpire la palla in modo forte e preciso, ottimi maestri in Finlandia e in un momento di grande slancio per il golf del nord Europa, con vari campioni a cui ispirarsi. Stubb giocava da ragazzo nel circolo di Helsinki, tanto campo pratica (il pratone in cui ci si esercita a tirare secchi e secchi di palline), una buona testa, la statura che aiuta, per ragioni meccaniche, a trovare più potenza per i colpi lunghi, e, ovviamente, talento e passione, fino a essere presto proiettato verso la nazionale giovanile finlandese. “Niente di speciale – ha detto poi in un discorso pubblico nel 2017 – potremmo considerarlo come essere un nazionale inglese di hockey sul ghiaccio”. Riferimento anche un po’ biografico, perché suo padre è stato a lungo il cercatore di talenti in Europa per conto della National Hockey League nordamericana. Da questi legami è derivata anche l’abitudine di passare l’estate in Canada o negli Usa, dove continuava a giocare a golf e a migliorare.
Suo fratello Nicolas, cui il presidente finlandese riconosce di essere il bello della famiglia, era stato negli Usa in un programma di scambi studenteschi e lì aveva conosciuto alcuni professori della Furman, dei quali aveva riferito positivamente ad Alexander. La scelta dell’università è stata dettata, comunque, dalla possibilità di continuare ad allenarsi e migliorare nel golf, con il doppio vantaggio degli sconti sulla retta per gli atleti che indossavano la maglia dell’università. Sempre con il sogno di arrivare al professionismo e buttarsi nelle selezioni per giocare i principali tornei. Strada aperta e perciò tentatrice. Nel golf non ci sono limiti teorici alla partecipazione alle gare, anche le maggiori. La definizione di gare Open nasce proprio per certificarne l’accessibilità. Il problema è che bisogna giocare benissimo, ovviamente, ma la via delle qualificazioni, per i giocatori dilettanti di buon livello, è lì e si tratta solo di percorrerla. Per essere più precisi il termine Open, e cioè la definizione delle principali competizioni, si riferisce, contrariamente a quello che si potrebbe immaginare, proprio all’apertura verso i professionisti, cui erano (e sono) invece precluse le gare dilettantesche, per un retaggio di ottocentesco distanziamento verso chi accetta denaro per i risultati sportivi. Insomma, il giovane Stubb entra nella squadra universitaria di Furman e gioca qualche gara di alto livello. Fino a trovarsi un giorno a girare in campo accanto a Phil Mickelson, uno dei più grandi della storia del golf, forse il più ammirato di tutti nei colpi corti, quelli di precisione attorno al green, in cui è dotato di una impareggiabile sensibilità.
“Ho guardato le sue mani mentre tirava un colpo e poi ho guardato le mie – ha raccontato Stubb, ricostruendo e razionalizzando le sue sensazioni giovanili – e ho capito che non sarei mai arrivato a livelli neanche paragonabili con quelli dei grandi campioni”. Il golf diventa presto per lui lo sport con cui accompagnare la formazione universitaria e nient’altro. Ma era stato a un passo dal cielo golfistico (e chissà che non sia stato troppo prudente nella rinuncia) e aveva imparato tecniche che il giocatore medio e anche quello medio-alto non riuscirà mai a mettere in pratica.
Facendo un salto ai prossimi sviluppi della vicenda si potrebbe dire che Trump come golfista sta a Stubb come Stubb sta a Mickelson, e che Trump, per quanto ami coltivare l’illusione sulle proprie capacità, sa bene che le sue mani non riusciranno mai, né mai sono riuscite in passato, a colpire una palla da golf con l’impatto, la forza, il rumore (un golfista anche solo domenicale lo conosce il rumore della palla colpita veramente bene e desidera con tutte le sue forze di riprodurlo), di un ferro tirato dal presidente finlandese. Forse è stato un briciolo di consapevolezza a far fuori la naturale invidia e trasformare Trump in un amico di Stubb o è stato un infantile desiderio di essere come lui, si direbbe di essere come i grandi, e perciò essere felice anche solo della condivisione di un giro in campo.
E’ tutto apparentemente poco trumpiano, vero, ma qualche sfumatura e qualche contraddizione possono abitare anche nell’universo monodimensionale del presidente americano. Perché Stubb non è il solito campione preso dal maggiore tour mondiale e portato da Trump (e come fai a dire di no al presidente?) a fare un giro in qualche suo campo e poi costretto a fare qualche buca con il padrone di casa. Quelli sono golfisti che si vedono in tv, sono campioni professionisti dai guadagni paurosi, con conti in banca trumpianamente considerabili, idoli golfistici estranei al giocatore medio. Stubb, invece, è anche un capo di stato, un omologo per Trump. L’incontro arriva grazie al senatore Lindsey Graham, un altro che con la sua storia di militare e di politico repubblicano con una lunga carriera precedente al movimento Maga, fa venire qualche complesso a Trump ma ne è ascoltato. “Sai che il presidente finlandese è un ottimo giocatore di golf”, butta lì Graham al suo amico alla Casa Bianca. Pochissime parole, per catturare lo spazio di attenzione di Trump. Un’indicazione che vale una carriera e crea un’intesa, con lo stile di Giulio Mazzarino che raccomanda qualcuno a Luigi XIV perché ha in mente un piano. Graham, per quanto fattosi trumpiano, è un fervente sostenitore dell’Ucraina, destinatario di invettive dal Cremlino, fedele interprete della strategia più dura della Nato e soprattutto del contrasto economico all’espansionismo russo, attraverso sanzioni più efficaci che arrivino fino alla drastica riduzione della capacità di approvvigionamento della Russia.
L’appuntamento viene preso in gran velocità, con Stubb che torna in campo pratica per riprendere un po’ il suo golf (cosa che avviene molto rapidamente) e poi, abituato ai viaggi transatlantici, arriva a Mar-a-Lago con i suoi vecchi bastoni da golf, sostituiti in corsa con un equipaggiamento un po’ più up-to-date (Trump detesta il pauperismo). Impressiona Trump con i suoi colpi e, come si diceva, riesce a catturarne l’ammirazione superando la barriera della psicologia trumpiana. E, tra una buca, e l’altra riesce a piazzare qualche concetto rilevante sulla contrapposizione irriducibile della Finlandia e degli altri paesi nordici con la Russia, sulla necessità del sostegno deciso e duraturo all’Ucraina, sul ruolo della Nato e dell’Ue.
Tutto sprecato, forse, dal Trump che stende tappeti rossi al suo amico Vladimir Putin e non pronuncia mai in pubblico una parola chiara sulle responsabilità russe nell’invasione dell’Ucraina e, anzi, farnetica su colpe di Joe Biden e continua a chiedere agli ucraini di smettere di farsi invadere. Oppure, magari con una mano da quel che resta dell’apparato intelligente di politica estera negli Usa, un briciolo della saggezza strategica finlandese andrà a contaminare la mutevole agenda trumpiana.
Vale la pena di fare altri giri in campo tra i due presidenti, di ripetere qualche vincente doppio presidenziale. Il golf è anche una mini Odissea, in cui si parte da un luogo sicuro e accogliente per affrontare difficoltà, tentazioni, rischi, e poi si torna da dove si era partiti, ma un po’ trasformati. Trump, forse perché ossessionato dal ricordo dei suoi fallimenti, sembra che abbia orrore di quell’epica e che cerchi di annullarla. Parla solo di vittorie e di colpi perfetti. Compra campi da golf come se il possesso gli desse anche il dominio sugli eventi. Forse serviva Stubb per rompere questo incantesimo maledetto, una specie di Parsifal golfistico, ottimista e tragico, che mostra al presidente, senza inganni, a cosa servano il coraggio, la forza, la buona volontà.