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il fronte siriano
Il doppio gioco turco nei negoziati tra Israele e Hamas. C'entra la Siria
Seppur indirettamente, Ankara e Tel Aviv si ritrovano coinvolte negli stessi dossier strategici: dalla mediazione su Gaza alla partita curda in Siria. La via di una possibile cooperazione pragmatica in un equilibrio regionale sempre più precario
Dopo la decisione israeliana di lanciare un’offensiva su Gaza City, la settimana scorsa sono emerse notizie sulla presenza di Hakan Fidan, ministro degli Esteri turco, in Qatar, dove il capo del Mossad David Barnea e il primo ministro del Qatar al Thani si sono incontrati con l’obiettivo di far ripartire i negoziati per un cessate il fuoco. La notizia, ripresa da vari media regionali, è stata smentita ufficialmente, ma confermata da vari addetti ai lavori. Il coinvolgimento turco nel processo negoziale, finora osteggiato da Israele, potrebbe dunque diventare realtà: secondo alcune indiscrezioni, anche i canali negoziali tra Egitto e Hamas sarebbero stati riattivati con la mediazione turca. I colloqui segreti al Cairo, guidati da Egitto e Qatar con la partecipazione della Turchia, mirano a raggiungere un pieno accordo per porre fine alla guerra. L’intesa andrebbe oltre un semplice cessate il fuoco: il piano prevede che Hamas sospenda le attività militari in una fase transitoria, per consentire lo svolgimento dei negoziati verso un accordo permanente che metta fine al conflitto. Anche in questo caso c’è stata la smentita della presidenza turca.
Per mesi Israele ha cercato di tenere Ankara fuori dai negoziati, a fronte del marcato allineamento del presidente turco Recep Tayyip Erdogan con Hamas. Insieme al Qatar, la Turchia rappresenta infatti uno dei principali sostenitori del gruppo, di cui ospita dirigenti e uffici e con cui condivide la vicinanza all’universo della Fratellanza musulmana. Una distanza che si è approfondita nel corso della guerra, con la sospensione unilaterale delle relazioni commerciali decisa da Ankara (sebbene gli scambi proseguano tramite canali alternativi) e con i ripetuti attriti tra le posizioni intransigenti delle rispettive leadership. Ma a tirare le fila dietro le quinte sono gli orizzonti strategici della regione. Per Ben Caspit, editorialista di al Monitor e Walla, “più che una reale preoccupazione per Israele o per la sorte degli ostaggi, ciò che sembra muovere Erdogan è la volontà di rafforzare il peso di Ankara nella regione, Gaza compresa”. Sullo sfondo, si gioca la competizione tra le due principali potenze regionali per l’influenza in Siria. Lo scorso luglio, l’intervento israeliano nella regione del Gebel Druso e il bombardamento della sede del ministero della Difesa siriano, avvenuto in risposta agli scontri tra comunità druse e gruppi beduini ad al Suwayda, hanno rappresentato un segnale preciso ad Ankara: Israele non è disposto a rivedere le proprie “linee rosse” a ridosso dei confini del Golan.
Ma è nella Siria settentrionale che si gioca la partita chiave. Il processo negoziale in corso per integrare le forze curde delle Sdf nelle strutture siriane è al centro del processo di pace avviato da Ankara con il fondatore del Pkk, Abdullah Ocalan. Se in Turchia il processo procede secondo i piani del governo, in Siria la trattativa appare in fase di stallo. A fine luglio è emersa la notizia che la Turchia avrebbe dato, con l’avallo americano, un ultimatum di 30 giorni alle Sdf, minacciando azioni unilaterali se non verranno fatti progressi. Il nodo centrale della trattativa riguarda il riconoscimento di diritti politici, linguistici e di autogoverno per i curdi: le Sdf non intendono accettare le condizioni imposte da Damasco e Ankara senza garanzie concrete. Da settimane, esponenti governativi turchi e media vicini al potere rilanciano accuse al gruppo curdo di voler minare l’intero processo di pace e attribuiscono a Israele un ruolo attivo nel disegno destabilizzante. Sia per Israele che per la Turchia lo scenario che si va profilando è quello di un equilibrio precario. Se Ankara può influenzare Hamas, Israele mantiene la capacità di ostacolare le ambizioni turche in Siria, intervenendo a protezione delle minoranze con precisi calcoli strategici. Nessuna delle due parti nutre simpatia per l’altra, ma entrambe riconoscono che l’alternativa sarebbe ben più instabile e pericolosa. Già questo dovrebbe bastare a porre le basi per una convergenza di intenti, che potrebbe nascere proprio da Gaza per poi espandersi altrove.