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Il capo del passato russo
Come funziona il potere di Putin nella Russia che non vede un futuro
Non delega, attorno a sé ha voluto soltanto vecchi amici dei servizi segreti, ha fatto credere ai cittadini di incarnare lo stato e la sua salvezza. Tutto dipende dal leader, simbolo e motore del regime. Dalla guerra al prezzo del burro
Pubblichiamo un estratto di “Russia, l’impero che non sa morire”, (Rizzoli). Nel suo nuovo libro Anna Zafesova si muove tra il passato e il futuro, tra Mosca e Kyiv: tutto è legato nelle strade dei due paesi che dalla caduta dell’Urss hanno iniziato a correre in direzioni opposte. Uno indietro e l’altro avanti.
Quando, il 22 ottobre 2014, alla riunione a porte chiuse del Club Valday – il ritiro a Sochi dove il Cremlino invitava studiosi della Russia di tutto il mondo – il presidente della Duma Vyacheslav Volodin aveva dichiarato "Se non c’è Putin non c’è nemmeno la Russia", la frase era stata interpretata come un esempio estremo di adulazione da parte di un cortigiano troppo zelante. Perfino il diretto interessato aveva trovato opportuno sminuire, scherzando: "La Russia potrebbe fare a meno di quelli come me".
In realtà, Volodin stava formulando, probabilmente a propria insaputa, il paradosso di Claude Lefort. Secondo il filosofo francese che ha dedicato la vita allo studio del totalitarismo, un leader autoritario è nello stesso tempo il capo della dittatura e il suo simbolo: praticamente, il fine e il mezzo, l’incarnazione fisica e la rappresentazione ideale, la realizzazione del sogno di Luigi XIV "Lo Stato sono io". I russi lo sanno bene, e il videoappello al presidente sta diventando un nuovo genere popolare. Un gruppo di cittadini – vittime di un’alluvione, di un terremoto, di un guasto alla centrale termica o di un drone ucraino – si piazzano in mezzo alla strada e si filmano mentre parlano a turno, raccontando la propria disgrazia e denunciando l’indifferenza delle autorità. È un genere che mischia la comunicazione senza intermediari dei social con l’antica tradizione della lamentela al sovrano, dei cahiers de doléances 2.0, che affonda le sue radici nell’antica convinzione che lo zar è buono, ma è circondato da boiardi avidi che lo tengono all’oscuro. Un’idea non del tutto infondata, visto che nel 1762 soltanto una denuncia che i contadini portarono a Caterina II avrebbe permesso l’arresto e la condanna di Daria Saltykova, possidente moscovita che aveva torturato e ucciso decine di suoi servi (trentotto morti erano state certificate dagli inquirenti, ma probabilmente la sadica nobildonna aveva sulla coscienza almeno altre settanta vittime). La legge dell’impero russo proibiva ai contadini di denunciare il loro proprietario e di chiedere misericordia direttamente al sovrano, ma la liberale Caterina, che scriveva lettere a Voltaire e aveva assunto Diderot come suo bibliotecario, aveva concesso qualche deroga. Il risultato erano state centinaia di denunce, e nel 1767 l’imperatrice avrebbe confermato, con un decreto che venne letto in tutte le chiese russe per un mese, che i servi che osavano denunciare i maltrattamenti subiti dai padroni allo zar sarebbero stati fustigati in piazza e spediti in confino eterno in Siberia.
Giudice, giustiziere e Babbo Natale
In tempi moderni, il genere è stato resuscitato dallo stesso Putin, che al contrario di Caterina si compiace molto di essere considerato l’ultima istanza di giustizia. Nelle lunghe "linee dirette" televisive con il suo popolo – che si tengono di regola una volta l’anno e durano ore – il presidente risponde alle domande dei giornalisti, alle richieste fatte in collegamento da varie regioni russe, e ai quesiti posti dai sudditi via internet. Nella sceneggiatura dell’evento, dichiarazioni su temi di alta politica e argomenti di dibattito pubblico vengono dosati e intervallati da interventi diretti per alleviare il malessere dei cittadini. Gli abitanti di un villaggio siberiano possono chiedere di venire allacciati alla rete del gas, i pensionati si possono lamentare del ricalcolo sbagliato delle pensioni, un medico di provincia può denunciare la mancanza di farmaci salvavita e una bambina povera può chiedere e ottenere in regalo un albero di Natale e un vestito da principessa. Giudice, giustiziere e Babbo Natale insieme, Putin si propone come l’unica soluzione ai problemi dei cittadini, il capo dei capi, l’uomo dal quale dipende tutto. Un modello che i politologi russi chiamano "cambio manuale", e che si manifesta anche fuori dagli eventi mediatici progettati per aumentare la popolarità del presidente.
Curiosamente per un uomo dotato di una laurea in Legge (per quanto sovietica) e allevato all’interno di due grandi sistemi – il Pcus e il Kgb – Putin non si fida né delle regole, né dei sistemi. Forse perché ha visto entrambi andare in frantumi nel 1991, ma si fida solo delle persone e delle lealtà individuali; per questo ha riempito le strutture del potere russo di suoi colleghi nei servizi, dei compagni di scuola e di allenamenti di judo, e ultimamente di sue guardie del corpo che nomina governatori e ministri. Ma non riesce a delegare molto nemmeno ai suoi favoriti: nelle prime fasi dell’invasione dell’Ucraina, aveva impartito ordini alle brigate "a livello dei colonnelli", come sostenuto da fonti dell’intelligence occidentale. Chi lo conosce dice che quando il presidente russo si appassiona a un progetto vi si dedica completamente, memorizzandolo nei minimi dettagli. Nei primi anni del suo regno, questa preparazione da primo della classe, unita a una mente precisa e a una retorica abbastanza lineare, aveva contribuito a farne un supereroe della politica, il presidente giovane e sportivo che sembrava sapere tutto e riuscire in tutto, dallo sport alla guerra.
Il burro del nemico
Questa overdose putiniana oggi si rivela un boomerang, perché Putin è diventato il perno, il motore e l’unico attore della politica russa, oltre che il suo solo e permanente evento. Non esiste un numero due del regime: formalmente, in caso di incapacità il presidente dovrebbe venire sostituito dal premier, ma probabilmente sono pochi i russi in grado di riconoscere per strada Mikhail Mishustin, l’ex capo del Fisco che da primo ministro si tiene prudentemente in ombra. Il telegiornale mostra ogni sera il modello del potere russo: il presidente riceve a rapporto ministri e generali, premia artisti e sportivi, visita università e caserme, presiede commissioni e assemblee. Decide qualunque aspetto della vita dei russi, dai manuali scolastici al prezzo delle uova. Parla di qualunque argomento, e avendo perso con l’età un po’ di memoria ogni tanto si dimentica nomi e numeri, oppure dice cose francamente imbarazzanti, come quando viene interrogato in diretta tv sui motivi dell’aumento del prezzo del burro (35 per cento in più in due mesi) e risponde che è colpa dei russi, che "vivono meglio e quindi consumano sempre più carne e latte, e la produzione non riesce a stare dietro alla domanda".
Il vero motivo per il quale il burro ormai viene venduto nei supermercati nelle confezioni antifurto sono le sanzioni
Ovviamente il vero motivo per il quale il burro ormai viene venduto nei supermercati nelle confezioni antifurto, che si sbloccano alla cassa solo dopo aver pagato, non è la nuova ricchezza dei russi, ma le sanzioni innescate dalla guerra. La Russia non produce quantità di carne e latte sufficienti a coprire le proprie necessità, e molti consumatori hanno notato che sotto le etichette del burro con scritte in arabo – Mosca sta cercando da anni fornitori alternativi a quelli tradizionali europei tra medio oriente e Asia – si vede un testo in ucraino: è il burro del nemico, riconfezionato e importato attraverso triangolazioni con Armenia, Kazakistan, Turchia o Dubai, aumentando i costi a ogni passaggio.