
Il presidente iraniano Masoud Pezeshkian dà il benvenuto al primo ministro pachistano Shehbaz Sharif al Palazzo Saadabad il 26 maggio scorso a Teheran, in Iran (Getty)
Il Pakistan continua a fare il furbo
È adulante con Trump, ma sottobanco stringe accordi con l’Iran e rafforza l’asse con la Cina
C’è un paese che più di altri guarda con interesse all’allontanamento – per ora soprattutto diplomatico – fra l’America di Donald Trump e l’India di Narendra Modi. Il governo pachistano è stato il primo a ringraziare Trump per i suoi sforzi nel raggiungere il cessate il fuoco con l’India, lo stesso nel quale, secondo New Delhi, la Casa Bianca non avrebbe avuto nessun ruolo, tanto che il ministro degli Esteri di Islamabad, Ishaq Dar, è volato a Washington due settimane fa per incontrare il segretario di stato Marco Rubio. Anche grazie a questa condiscendenza, il Pakistan è stato fra i primi paesi asiatici a raggiungere un accordo commerciale con Trump. Come da tradizione della sua politica estera, Islamabad vuole stringere accordi con l’America ma oggi è più dipendente che mai dalla Cina e dai suoi alleati.
Il paese dell’Asia meridionale, che quasi vent’anni fa l’ex segretaria di stato americana Madeleine Albright definì “un mal di testa internazionale” (“Ha armi nucleari, terrorismo, estremisti, corruzione, è molto povero e si trova in una posizione davvero molto importante per noi”, era la frase completa) ha sempre cercato di navigare tra le fratture diplomatiche altrui per guadagnare spazio, potenza e denaro: una direzione politica che è rimasta costante nei decenni anche nel mezzo di turbolenze e lotte di potere interne. Ma poi il mondo è cambiato, e oggi il più importante partner del Pakistan è la Cina, che secondo diversi osservatori usa Islamabad come pedina in un più vasto gioco di cui l’Asia è solo un primo capitolo.
I particolari movimenti opportunistici del Pakistan non sono passati inosservati in India. Alla fine di luglio il presidente Trump ha annunciato che l’America e il Pakistan “lavoreranno insieme allo sviluppo delle loro enormi riserve petrolifere”, e che Washington sta ancora scegliendo le compagnie petrolifere che andranno a lavorare nel paese. La maggior parte delle riserve petrolifere pachistane si trova nella martoriata regione del Balochistan, dove il terrorismo (non solo islamista, ma anche indipendentista) esiste, ma dove con la scusa dell’antiterrorismo il Pakistan applica una sistematica e violenta repressione anche contro le minoranze pacifiche. Il Balochistan è cruciale anche perché, stretto fra Iran e Afghanistan, ospita il porto di Gwadar, da anni ormai nelle mani di Pechino ed elemento essenziale della Via della seta cinese. Dopo l’annuncio, Trump aveva aggiunto, quasi ironicamente: “Chissà, magari prima o poi venderanno petrolio all’India!”, che finora si rifornisce per il 40 per cento del suo fabbisogno dalla Russia. Ma la rinnovata relazione con l’America non si esaurisce con l’energia: ieri è stato confermato che il capo dell’esercito pachistano, Asim Munir, dovrebbe recarsi negli Stati Uniti entro la fine della settimana per dei colloqui con alti funzionari della Casa Bianca, e sarebbe il suo secondo viaggio a Washington nel giro di due mesi: a giugno era stato invitato a pranzo da Trump in persona.
Nel frattempo però, l’agenda pachistana è molto lontana da quella delle democrazie liberali occidentali. Subito dopo l’annuncio dell’accordo con l’America, il primo ministro Shehbaz Sharif, lo scorso fine settimana, ha accolto a Islamabad il presidente iraniano Masoud Pezeshkian, in un incontro pieno di accordi molto rilanciati anche – non a caso – dalla stampa cinese. I due leader hanno firmato accordi per aumentare il commercio bilaterale fino a 10 miliardi di dollari, e sperano di collaborare di più contro il “terrorismo”. Il Pakistan sostiene il programma nucleare iraniano, e la visita di Pezeshkian è stato il coronamento di un ritorno alla normalità delle relazioni che si erano incrinate un anno e mezzo fa, con la crisi fra i due paesi proprio in Balochistan. Islamabad ci ha provato anche con l’Afghanistan: dopo aver ripreso le espulsioni forzate dei rifugiati afghani il cui permesso di soggiorno è scaduto a giugno (circa 1,4 milioni di persone), e dopo che l’India si è mostrata particolarmente dialogante con il regime dei talebani, il governo di Shehbaz Sharif voleva dare un’accelerata alle relazioni. A maggio era stata, guarda caso, la Cina a celebrare il riavvicinamento informale, presieduto con tanto di stretta di mano a tre dal ministro degli Esteri cinese Wang Yi. Ma il viaggio a Islamabad del capo della diplomazia dei talebani, Amir Khan Muttaqi, che era previsto in questi giorni, è stato improvvisamente cancellato. E la visita sarebbe stata bloccata dall’America, “in risposta al continuo rifiuto del gruppo di ammettere di detenere il cittadino americano di origine afghana Mahmood Habibi”. Mentre il Pakistan (come la Cambogia) propone Trump per il premio Nobel per la Pace nel massimo della manifestazione di adulazione, ieri si è diffusa la notizia che il primo ministro indiano Narendra Modi il 31 agosto sarà in Cina per la prima volta in sette anni, al summit della Shanghai Cooperation Organisation.