La tragedia di Gaza, gli errori di Israele e le trappole da evitare per non legittimare Hamas

Claudio Cerasa

Ostaggi rimossi, antisemitismo derubricato, “resistenza” di Hamas legittimata. Così l’odio verso gli ebrei si rafforza, alimentato dalla narrazione che trasforma i terroristi in simbolo di lotta contro i "famigerati nazisti israeliani"

Brendan O’Neill è un importante e stimato commentatore dello Spectator e ieri mattina ha scritto un articolo importante e delicato per provare a ragionare attorno a un tema sempre più ignorato da buona parte dell’opinione pubblica mondiale. O’Neill, di fronte all’immagine drammatica del prigioniero israeliano nelle mani di Hamas da 668 giorni, si è chiesto come mai Hamas, dopo quasi due anni dal 7 ottobre, provi così poca vergogna per ciò che ha fatto, per ciò che sta facendo, per ciò che promette di fare, ovvero resistere, resistere, resistere, rifiutandosi di restituire gli ostaggi, gesto che permetterebbe alla guerra di finire all’istante, e la ragione di questa disinvoltura con cui Hamas può permettersi di fare tutto quello che vuole è legata a una risposta non meno drammatica di quell’immagine: sa che ogni atto terribile che riguarda tutto ciò che capita attorno alla guerra a Gaza verrà automaticamente considerato da buona parte dell’opinione pubblica mondiale come una responsabilità di Israele.

 

La guerra a Gaza, lo sappiamo e lo scriviamo, è ormai una tragedia senza fine ed è diventata non solo veicolo di barbarie ma anche una forma di autolesionismo nei confronti di Israele stesso: una guerra non compresa, che genera non solo un numero inaccettabile di morti ma anche un grado inaccettabile di autodelegittimazione di Israele, è una guerra dalla quale occorre uscire al più presto possibile.

 

Ma la disinvoltura con cui ormai l’opinione pubblica internazionale ha cominciato a non provare vergogna per tutti i crimini contro l’umanità portati avanti da Hamas (e la disinvoltura con cui si porta avanti l’idea che il riconoscimento in quanto stato di un territorio che è ancora in parte controllato dai barbari di Hamas che rapiscono, imprigionano, affamano e umiliano gli ebrei sia l’unico modo per far arrivare il conflitto a un punto di svolta, senza capire che riconoscere unilateralmente lo stato palestinese non all’interno di una trattativa è il più grande regalo a chi non riconosce Israele) ha a che fare con un problema che non può essere cancellato dalla tragedia di Gaza e che riguarda la volontà di considerare tutti gli orrori perpetrati nel mondo contro gli ebrei come parte di una resistenza legittima contro i famigerati nazisti israeliani. In quest’ottica, l’ostaggio nelle mani di Hamas non è più il simbolo dell’orrore, questo sì, davvero genocidario da parte dei terroristi islamisti ma diventa un atto di resistenza per difendersi da una minaccia più grande per il mondo che è tutto ciò che rappresenterebbe lo stato ebraico. E allo stesso modo, sempre in quest’ottica, la disinvoltura con cui si sceglie di creare parallelismi tra lo stato ebraico e il Terzo Reich di Hitler contribuisce a creare un terreno favorevole in cui ogni forma di resistenza contro Israele diventa legittima e doverosa.

 

Il ragionamento vale naturalmente quando si parla di genocidio, e quello a Gaza come ha ricordato ieri sul Foglio il professor Graziosi non lo è perché a Gaza c’è una guerra drammatica in corso e non c’è una volontà sistematica di sterminare un intero popolo, e si capisce però che bollinare con quella parola Israele permette di creare una disumanizzazione tale da sdoganare ogni atto di resistenza nei confronti del popolo ebraico, “e dei suoi complici”. Ma il ragionamento vale, prima di tutto, anche per la sottovalutazione con cui, da mesi, si osserva un fenomeno che con la guerra in medio oriente c’entra ma non per le ragioni che si potrebbero pensare: l’antisemitismo. Le notizie ormai si accavallano, si moltiplicano, si susseguono, e solo negli ultimi giorni abbiamo letto quanto segue.

   

Il caso di una infermiera olandese indagata per alcuni suoi post sui social media in cui minacciava di uccidere pazienti “sionisti” tramite iniezione. Il caso di sei vandali mascherati che hanno assaltato ad Atene il ristorante kosher King David Burger. Il caso sospetto degli studenti ebrei fatti scendere da un aereo della Vueling. La rissa verbale contro due ebrei in un Autogrill in Italia. Il caso di uomo ebreo che viaggiava su un autobus a Dublino, aggredito verbalmente e fisicamente da un passeggero che citava Gaza. In Germania i casi sono quasi raddoppiati rispetto al 2023, superando quota 8.600, con una media di 7-8 episodi al giorno solo a Berlino. In Francia si segnalano circa 100 atti di antisemitismo al mese tra aggressioni, minacce e vandalismi. Secondo l’Agenzia Ue per i diritti fondamentali, l’ondata attuale è la più intensa degli ultimi vent’anni. L’istinto dell’antisemita collettivo è quello di considerare, nel migliore dei casi, questi episodi come una reazione alle oscenità commesse da Israele a Gaza. Ma quello che viene ignorato è che purtroppo la guerra in medio oriente non ha creato un nuovo antisemitismo: ha semplicemente dato una scusa in più, a chi odia gli ebrei, di odiarli ancora di più, e di considerare ogni ebreo colpevole semplicemente di essere ebreo.

  

C’è una guerra che Israele sta facendo di tutto per perdere, ed è quella a Gaza. Ma c’è una guerra che neppure chi odia Israele dovrebbe permettere ai terroristi di vincere: trasformare l’antisemitismo in un atto di resistenza globale, considerare l’adesione alla propaganda di Hamas nell’unico modo possibile per avere un medio oriente in pace e considerare chiunque chiede di non cancellare il 7 ottobre come un negazionista insensibile al dramma di Gaza. Chiedere a Israele un cessate il fuoco è un conto. Fare dell’agenda di Hamas l’unica in grado di salvare l’occidente è un altro. E se Hamas prova così poca vergogna per ciò che ha fatto bisognerebbe chiedersi non solo che colpe ha Israele ma anche che colpe ha l’occidente per aver trasformato Hamas nell’alfiere legittimo di una nuova resistenza globale.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.