Il ritorno con i segni della tortura. Come muore un prigioniero di guerra ucraino

Micol Flammini

La storia medica di Valery Zelensky racconta le torture subite e sopportate in un campo di prigionia russo per 1.187 giorni. Il sacrificio al suo ventiduesimo giorno di ritorno alla vita 

Prima del  ritorno dalla prigionia nei campi di detenzione russi, Valery Zelensky aveva alle spalle una storia di eroismo e resistenza. Dopo il suo rilascio, forse dai tratti del suo volto ormai irriconoscibili, si poteva intuire che i suoi ventidue giorni di libertà riconquistata si sarebbero conclusi con una tragedia. Zelensky era stato fatto prigioniero a Mariupol, quando nella città si combatteva per rallentare l’avanzata dell’esercito russo: è stata una battaglia disperata di cui i combattenti conoscevano già l’epilogo, il loro fine era il sacrificio. Zelensky a cinquantaquattro anni si presentò come volontario per quel sacrificio, la sua unità non combatteva a Mariupol, di quaranta uomini soltanto otto scelsero di partire per la città sotto assedio dei russi. Venne catturato, tenuto in prigionia in vari campi russi per millecentottantasette giorni. 

 

Durante la detenzione nei campi di prigionia i contatti con le famiglie sono scarsi, spesso nulli e Zelensky era riuscito a mandare una sola lettera a sua moglie e alle sue figlie: all’interno non c’erano riferimenti sul luogo in cui era recluso, sulla sua sorte e sulla sua salute. Chi viene catturato finisce in un buco nero, Mosca non permette i contatti con l’esterno, non dà notizie, durante la prigionia si viene risucchiati, così la condanna è doppia: per il detenuto e per la sua famiglia. Il nome di Valery era apparso più e più volte nelle liste dei prigionieri che Mosca diceva di esser pronta a liberare, ma Valery non tornava mai. Alla fine è stato rilasciato a maggio, nell’ambito del grande scambio pattuito a Istanbul tra ucraini e russi: lo scambio di prigionieri è l’unico argomento su cui il Cremlino e i suoi emissari accettano di trattare. Valery era tornato magrissimo, si era messo sulle spalle la bandiera dell’Ucraina e aveva riabbracciato la sua famiglia. Soltanto lui sapeva cosa aveva subìto, non voleva raccontare ma il suo corpo aveva iniziato a parlare, aveva iniziato a disperarsi. 

 

La storia medica di Zelensky al ritorno racconta le torture subite e sopportate, “ho disciplina e sono forte. Il mio corpo e i miei muscoli mi hanno protetto”, aveva detto. Nella memoria aveva le immagini dei compagni di prigionia morti per le torture, lui era sopravvissuto, ma le torture gli avevano lasciato un marchio interno. Quando un prigioniero di guerra torna, viene portato in ospedale, poi parla con l’esercito e con gli uomini dei servizi segreti che cercano informazioni soprattutto su altri detenuti. In ospedale si stabilisce quale dieta si deve seguire, tornano cadaverici, stravolti. Si stabiliscono i danni fisici, si inizia la cura. I medici avevano pensato che Valery avesse problemi al pancreas, decisero di operarlo. Aprendolo, in sala operatoria, scoprirono che i suoi organi erano tutti danneggiati, molti in stato di necrosi. La tortura aveva lasciato il marchio dentro, Valery Zelensky è morto al suo ventiduesimo giorno di ritorno alla vita. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)