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tra caos e illusioni

Perché i governi “forti” si riscoprono deboli e fragili. Un'indagine

Alessandro Aresu

Contro il mito della stabilità e dell’efficienza delle autocrazie. Gli Stati Uniti e la Cina. La parabola di Elon Musk. La forza intrinseca delle democrazie

Nel 2014 Michael Ignatieff, intellettuale prestato alla politica canadese (e, al contrario di un ex tecnocrate come Mark Carney, sonoramente sconfitto), pronunciò un interessante e denso discorso presso la Ditchley Foundation. Il suo intervento, tradotto sul Foglio l’11 agosto 2014, è ancora attuale. In quella lezione, Ignatieff identificava il tema della sfida dei sistemi autoritari alla democrazia, riconoscendo alcune delle tensioni che hanno caratterizzato il dibattito degli anni successivi. Ignatieff poneva la questione in termini netti e provocatori: “Le società autoritarie hanno vantaggi significativi su quelle democratiche. Possono prendere decisioni più rapidamente, schierare risorse di lavoro e capitale con decisioni esecutive, mentre le società democratiche devono prima superare i veti insiti nei loro sistemi”.

Allo stesso tempo, pur riconoscendo questo apparente divario, lo studioso canadese invitava a non abbracciare in senso acritico i facili entusiasmi sulle autocrazie. Ignatieff suggeriva di guardare anche alla fragilità delle oligarchie autoritarie, in cui “i governanti credono di dover controllare tutto per paura di non controllare nulla in breve tempo”. Così, a dispetto della loro presunzione e rivendicazione di efficacia, i leader delle autocrazie si trovano spesso sorpresi da eventi che non riescono più a controllare e in cui la loro forza esecutiva, di trasformare gli annunci in realtà, non ha più effetti concreti.

Anche numerose ricerche di uno studioso come David Runciman, che nell’ultimo decennio come vuole lo spirito del tempo è passato dagli impegni all’Università di Cambridge a una fervente e pregevole attività come podcaster, hanno insistito sul problema e sul dilemma della stabilità delle autocrazie in rapporto al caos delle democrazie. 

Quella della capacità di imporre decisioni rapide, senza dover scendere a compromessi e assecondare gli elettori, è una rivendicazione che viene da molto lontano e che ha caratterizzato, ovviamente, i sistemi autoritari della prima parte del Novecento all’interno della percezione di una “crisi definitiva” della democrazia. La stabilità delle autocrazie risiederebbe così nella loro inamovibilità, nella loro indifferenza rispetto alle oscillazioni elettorali e in una presa sul potere che consente di attuare le politiche senza ostacoli. In questo mito autoritario, il potere esecutivo può sprigionare i propri effetti senza badare ai vincoli che inevitabilmente ne rallentano l’azione. Il successo economico cinese, secondo questa chiave di lettura, sarebbe il coronamento e l’esempio principale della capacità di sistemi che non subiscono i vincoli elettorali, così come noi li intendiamo tradizionalmente, e che non debbono affrontare le limitazioni dei vari contropoteri. Secondo questo stereotipo, da un lato c’è chi è in grado di costruire una città in una notte, mentre dall’altro lato si trova un’infinita conferenza di servizi, popolata da centinaia di attori che rappresentano interessi disparati: il caos dove ognuno può sollevare obiezioni, in modo che non si costruisca mai nulla. 

E’ significativo, a questo proposito, che il pensatore identificato con lo stereotipo del trionfo della liberaldemocrazia dopo la Guerra fredda, Francis Fukuyama, si sia poi dedicato in questo secolo a una lunga genealogia istituzionale ispirata a Max Weber e Henry Sumner Maine, per poi coniare il termine “vetocrazia” per descrivere la situazione degli Stati Uniti dieci anni fa. In quel periodo, un giornalista che amplificava l’allarme di Fukuyama era Ezra Klein, che negli ultimi mesi ha suscitato un ampio dibattito negli Stati Uniti col libro “Abundance”, scritto con Derek Thompson. In sintesi, secondo questa rappresentazione l’America cosiddetta “progressista” è diventata l’infinita conferenza di servizi di cui parlavamo sopra, in cui alla chiacchiera elettorale segue sempre l’incapacità di realizzare infrastrutture e di fornire servizi di base ai cittadini. Questa democrazia non funziona, genera frustrazione, amplifica una percezione di inutilità.

L’investitore Marc Andreessen, in numerosi interventi, ha portato alle estreme conseguenze questo dibattito. Rivendicando le sue letture della scuola elitista italiana, ha sostenuto apertamente che, poiché la democrazia è comunque una forma di oligarchia, ciò che conta è fare in modo che un’élite di “costruttori” sprigioni tutte le sue energie, controllando l’apparato istituzionale senza più vincoli. Altrimenti, senza questa trasformazione radicale, la sfida col Partito comunista cinese non potrà essere vinta. 

Si potrebbe sintetizzare dicendo che, mentre negli Stati Uniti avviene un’infinita discussione tra “costruttori” e “regolatori”, i cinesi costruiscono l’alta velocità, gli aeroporti, e tutto il resto. Eppure, se proviamo a guardare da vicino il tema della stabilità autocratica, la questione non è così semplice e lineare. 

Nei libri da “The Confidence Trap” del 2015 a “How Democracy Ends” del 2018, tradotti anche in italiano, Runciman ha messo in guardia, sulla base dell’esperienza storica, rispetto a una lettura superficiale delle capacità delle autocrazie rispetto alle democrazie. Ciò che sembra un punto di forza può rivelarsi, sotto un’altra prospettiva, una grande debolezza. Le autocrazie, a differenza delle democrazie, non possono permettersi di sbagliare e soprattutto di ammettere in modo palese i propri errori, perché ciò significherebbe un’ammissione di debolezza e di incapacità, in grado di colpire al cuore la propria legittimità. Secondo Runciman, a partire da questa differenza fondamentale le democrazie sanno adattarsi alle proprie debolezze, mentre le autocrazie, a furia di negarle, rischiano di inabissarsi con esse. La loro presunta efficacia ha una dimensione rigida, che le allontana dalla logica dell’adattamento e della sperimentazione. 

Inoltre, la narrazione secondo cui gli stati autoritari siano necessariamente più efficaci nel gestire la crisi, grazie alla loro superiorità nell’attuazione delle politiche, non è sufficientemente dimostrata. La risposta efficace alle crisi deriva dalla capacità istituzionale, dalla fiducia pubblica e dalla trasparenza, non in modo deterministico dal tipo di regime. Secondo uno studio del Carnegie Endowment del 2022, non c’è una relazione chiara tra tipo di regime e performance nella risposta a shock come la pandemia o le crisi ambientali.  

 

Di certo, si può riconoscere che, in un sistema rigido, è ancora più difficile per gli attori politici cambiare rotta rispetto agli errori che inevitabilmente si commettono. Al contrario, un punto sottolineato dai libri di Runciman è che le democrazie, pur apparendo caotiche, lente e paralizzate, possiedono una forza intrinseca nel loro stesso disordine: una capacità di adattamento, di assimilare gli eventi storici senza essere alterati in modo esistenziale. Ciò non vuol dire che le crisi siano in grado per forza di forgiare un percorso ben definito, come nella mai troppo abusata sentenza di Jean Monnet sull’Europa che sarà fatta attraverso le crisi: una frase trasformata ormai in un feticcio buono per tutte le stagioni, prima di ogni “decisiva” riunione di leader alla quale seguiranno altre centinaia di riunioni tutte “decisive”. Il punto è piuttosto che una paradossale forza della democrazia è il fatto che il momento davvero “decisivo”, di vita o di morte, “l’ora delle decisioni irrevocabili” non arriva proprio. Per fortuna. Avanzano nuove sfide e richiedono risposta, certo, l’orizzonte muta, si generano confusioni, ripensamenti e ritardi, ma in questo stesso panorama c’è anche un’inerzia istituzionale, una forma di stabilità di fronte alle tempeste. C’è una potente inerzia che ridimensiona quelle che sembrano sfide esistenziali, in grado di cambiare tutto e che poi si ritrovano, proprio per via di questa saggezza dell’inerzia, dal fuoco della polemica alle ultime pagine della cronaca. Come nella vicenda di Elon Musk dei nostri giorni, celebrato nelle copertine come vero presidente, anzi imperatore degli Stati Uniti e poi tornato per ora, quasi docilmente, a fare tweet sui successi di Starlink in Australia.  

Diverso è il modo con cui si pone la questione per le autocrazie. Quando il mito della loro stabilità si incarna in un leader apparentemente forte, questa stessa potenza rappresenta un’intrinseca debolezza. Anzitutto, per l’inevitabile fragilità umana, in termini biologici. Si può governare per molti anni, o perfino per qualche decennio, ma la salute di un leader e la durata limitata della sua permanenza su questo pianeta prima o poi presentano il conto. Per le autocrazie, è difficile affrontare questo momento – il punto in cui il leader si indebolisce fisicamente, più o meno trascinato nel tempo, più o meno nascosto, e muore – in termini lineari e prevedibili. E cioè, attraverso un piano di successione che redistribuisca il potere tra le varie élite in un modo considerato soddisfacente da tutti, senza conflitti violenti. Com’è comprensibile, il leader in carica, che ha accumulato potere nel corso degli anni, è portato a rinviare sine die la sua successione, vedendola come un chiaro indebolimento, e così la sua forma politica si trova intrappolata in un presente che divora il futuro. Il paradosso è che, proprio dove è avvenuta una promessa di certezza, di unità di intenti, di prevedibilità, cresce l’alone di incertezza su una questione fondamentale, col rischio di un salto nel buio, senza alcuna garanzia sull’assenza di disordine nel futuro prossimo. 

Un altro fenomeno che abbiamo visto negli ultimi anni, ma che caratterizza la storia dei regimi autocratici con una certa regolarità, è quello del crollo repentino. I sistemi che proiettano solidità nascondono faglie e divisioni che si presentano all’improvviso, soprattutto nel momento in cui le loro fonti di legittimità – sul piano economico e militare – sono messe radicalmente in discussione, rivelando debolezze impreviste. Spesso la forza di un sistema autocratico può essere colpita con efficacia dagli elementi permanenti e di continuità che caratterizzano gli stessi sistemi democratici: per esempio, una democrazia può disporre di apparati di intelligence in grado di portare avanti azioni di lungo, lunghissimo termine, con una accurata pianificazione e una perfetta esecuzione, e in questo modo può riuscire a tenere in equilibrio le esigenze della sicurezza nazionale con un assetto democratico. 

Se, alla luce di queste considerazioni, la stabilità delle autocrazie può apparire sopravvalutata, ciò non deve portarci a un’illusione speculare, anch’essa deterministica: il cammino della costruzione, del mantenimento e del rinnovamento di adeguate strutture istituzionali, capaci di rispondere alle sfide economiche e sociali del nostro tempo, non è semplice per nessuno. Né il riconoscimento degli elementi di debolezza delle autocrazie deve portare a ridimensionare o sottovalutare la portata dell’ascesa economica, tecnologica e politica della Repubblica Popolare Cinese, e il successo di altri sistemi (si pensi, di recente, alla Repubblica Socialista del Vietnam) che hanno messo insieme il governo di un partito con la crescita del benessere, il miglioramento della formazione, la scalata nelle filiere industriali.  

Eppure, non è detto che la nostra epoca sia solo e semplicemente quella dell’arretramento delle democrazie, segnalata per esempio dai dati dell’ultimo Global Democracy Index dell’Economist, che indica la disaffezione, la fatica e il malessere delle democrazie e che divide il mondo tra un gruppo sparuto che vive in “democrazie complete”, un numero più ampio in regimi ibridi e la maggior parte della popolazione mondiale, che si trova invece in regimi autoritari o ibridi. Vicino a questi fenomeni di arretramento democratico, non sembra esserci un vero trionfo delle autocrazie. Avanza invece la loro debolezza. I governi cosiddetti “forti” si riscoprono a loro volta deboli e fragili rispetto alle pretese di efficienza, e così rimescolano le “carte” che abbiamo in mano.
 

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