Incontro a Shanghai tra il presidente cinese Xi Jinping e il presidente russo Vladimir Putin (foto LaPresse)

L'ordine mondiale post Ucraina

La democrazia liberale e il suo nuovo nemico: il capitalismo autoritario

Michael Ignatieff

Non si può tornare a parlare di Guerra fredda. Bisogna guardare a Mosca e Pechino con occhi diversi e però chiedersi: sono stabili queste potenze? Sono aggressive?

L’annessione russa della Crimea ha scosso le fondamenta delle nostre convinzioni sull’ordine mondiale, formatesi dopo il 1989. Avevamo infatti pensato che la Russia fosse un impotente predone in declino, o un aspirante partner. Avevamo creduto che la Russia e l’Europa condividessero l’interesse all’integrazione economica che avrebbe reso l’alterazione forzata dei confini europei un mero elemento del passato. Tutte queste illusioni sono state ridotte in frantumi.

 

Stiamo ancora dibattendo su come reagire in conseguenza a ciò. I problemi vanno ben oltre le sanzioni: i leader europei e americani devono decidere se accettare che l’Ucraina cada nella sfera di influenza russa, con conseguenti limiti alla sovranità ucraina e alla nostra influenza sul suo sviluppo, o se piuttosto insistere sul fatto che l’Ucraina abbia il diritto all’autodeterminazione e all’integrità territoriale, un diritto che dovremmo difendere fino al raggiungimento di tali obiettivi. I valori – libertà democratica, unità dell’Europa – ci spingono verso una direzione, gli stretti legami economici e la dipendenza energetica – ci spingono verso quella opposta.

 

La Crimea non è il solo evento che ci porta a cercare di capire che tipo di orientamento abbiamo. Con la proclamazione di un califfato terrorista ai confini di Siria e Iraq, la dissoluzione dell’ordine creato dall’accordo Sykes-Picot nel 1916 sta avendo luogo proprio davanti ai nostri occhi. Anche se in ultima istanza il califfato verrà sconfitto, così come dovrebbe essere, rimettere assieme il puzzle dell’esistente ordine geopolitico del medio oriente potrebbe non essere più possibile.

 

Il riordinamento in atto è davvero globale. Nell’Asia orientale, flotte navali rivali girano una attorno all’altra, le piattaforme petrolifere cinesi perforano in acque dalla territorialità contestata, e accuse bellicose volano fra le capitali asiatiche. La Cina non parla più la lingua della “crescita tranquilla”. La muscolare politica estera di Xi Jinping mette in allarme Vietnam, Giappone, Filippine e Stati Uniti.

 

Percepiamo che tutti quei cambiamenti – in Europa, medio oriente e Asia orientale – sono connessi l’uno all’altro. Percepiamo come le placche tettoniche si stiano muovendo. Ci domandiamo se qualcuno a Washington, Londra, Mosca o Pechino si renda davvero conto di ciò che sta accadendo. Questo pare un buon momento per considerare quali narrative abbiamo a disposizione per dare un senso a quello che sta succedendo.

 

Gli analisti di politica estera e i policy maker possono considerare “narrativa” l’area degli studiosi del linguaggio o dei romanzieri, ma la narrativa – storie che parlano di ciò che la storia significa e di ciò che essa giustifica – è il costrutto mentale individuale più decisivo nel formare la politica estera.

 

Il 28 giugno ero a Sarajevo – con Margaret MacMillan e Sir Adam Roberts – per partecipare a una commemorazione del Carnegie Council in ricordo dell’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando e dell’inizio della Prima guerra mondiale. Margaret MacMillan ha elencato chiaramente il tragico modo nel quale le narrative sbagliate hanno guidato la reazione politica alla crisi. La supposizione dominante su tutti i fronti fu che i rischi degli ultimatum fossero gestibili perché la guerra, se mai fosse iniziata, sarebbe stata breve. Dopo tutto, la guerra dei Balcani del 1912 era stata breve; e lo stesso valeva per quella franco-prussiana del 1870. Perché non avrebbe dovuto essere breve e decisivo anche un possibile confronto fra austro-ungarici e serbi? Sia Sigmund Freud sia Adolf Hitler accolsero l’ultimatum austroungarico alla Serbia con esultanza. Né i saggi né i fanatici capirono che la prossima guerra sarebbe stata tragicamente differente. Fu Helmuth von Moltke, vittorioso a Sedan, che in fin di vita avvertì che quella a venire non sarebbe stata una “guerra del governo” ma “una guerra della gente, e povero colui il quale avesse acceso la scintilla”. Purtroppo in pochi ascoltarono la sua premonizione. Le commemorazioni del 1914 dovrebbero renderci consapevoli, ancora una volta, del ruolo maligno che le false narrative possono giocare nel determinare le politiche.

 

Nel 1914, i policy maker combattevano la loro ultima battaglia, senza cercare di prevenire quella successiva. Nel 2014, dovremmo riuscire a evitare lo stesso errore, capendo cosa di genuinamente nuovo sussiste nello schema delle relazioni internazionali.

 

Ciò che è nuovo è il grado senza precedenti di integrazione economica e tecnologica fra blocchi rivali. La Russia fornisce gas alla Germania, la Germania fornisce alla Russia beni tecnologici e manifatturieri. La Cina compra debito del Tesoro americano e Apple fa costruire i suoi iPhone e iPad in Cina. Questo grado di integrazione economica – che sorpassa qualsiasi cosa sia stata raggiunta con la prima globalizzazione, culminata nel 1989 – implica che “una nuova Guerra fredda” è la narrativa sbagliata quando si cerca di capire cosa sta accadendo oggi.

 

La Guerra fredda ebbe luogo fra autarchie economiche e tecnologiche, ciascuna chiusa all’altra. Nel 1948 la domanda che ci facevamo sulla politica era quale di queste autarchie rivali avrebbe prevalso, non quale oligarca russo con un paio di palazzi a Londra si sarebbe visto congelare i conti. Nel 1948, la sfida russa alla Germania ovest riguardava la stessa sopravvivenza di quest’ultima come repubblica democratica. Nel 2014, la sfida russa riguarda il riscaldamento delle sue abitazioni. Nel 1962, piazzare missili sovietici a Cuba ha quasi portato il mondo a una guerra nucleare. Nel 2014, ben pochi pensano che l’annessione della Crimea sia il primo passo verso la restaurazione dell’impero sovietico.

 

I confronti ideologici impliciti nella Guerra fredda sono svaniti, e non faranno mai ritorno. Dalla Rivoluzione russa in avanti, milioni di persone che davvero credevano nel comunismo hanno combattuto, e in qualche caso hanno perso la vita, confidando che esistesse un’alternativa socialista al metodo di produzione capitalista. Questo “domani radioso” ha diviso in due l’Europa, e ha plasmato i tentativi di decolonizzare gli imperi europei. Appena ottenuta l’indipendenza, ogni nazione cercò di sbarazzarsi della regola coloniale e di sostituirla con una qualche sorta di “socialismo in una nazione”. Entro il 1989, quando collassò l’impero sovietico, le speranze investite nel “metodo di produzione socialista” e il domani radioso morirono entrambi con esso. Mentre ci sono molti tipi di società capitalista, non esiste alcuna alternativa fattibile al capitalismo come metodo economico di produzione. Nel 1989, la questione venne quindi risolta.

 

Questo era ciò che voleva intendere Francis Fukuyama quando ci disse che la storia aveva avuto termine nel 1989. La storia, ovviamente, non ha mai fine, ma egli aveva ragione nel credere che il confronto che aveva plasmato la storia, fra capitalismo e comunismo, avesse avuto termine.

 

Venticinque anni dopo, però, dal confine polacco al Pacifico, dal Circolo polare artico al confine afghano, ha preso forma un nuovo avversario politico per la democrazia liberale, che Fukuyama non era riuscito ad anticipare: l’autoritarismo in forma politica, capitalista in economia e nazionalista nell’ideologia. Lawrence Summers lo ha definito “autoritarismo mercantilista” – che di certo coglie il ruolo centrale giocato dallo stato e dalle imprese nelle economie russa e cinese. Il mercantilismo, però, non coglie l’elemento chiave del clientelismo che è centrale nel modello economico di Putin così come nel Partito comunista in Cina.

 

Questo “capitalismo autoritario” – inaugurato per la prima volta da Augusto Pinochet in Cile durante gli anni 70 – è ora il principale avversario della democrazia liberale, e se dobbiamo rispondere alle sfide che presenta, dovremo capire la sua logica intrinseca.

 

Putin utilizza il suo potere come presidente per premiare quegli imprenditori che meglio gestiscono – e sfruttano – l’integrazione della Russia nel libero mercato per beni primari, principalmente petrolio, gas e minerali. I prezzi di tali merci sono stabiliti nel mercato globale, di conseguenza l’economia russa non è più autarchica. E’ aperta alle pressioni competitive dei sistemi globali di prezzo, ma l’allocazione del premio economico nel sistema russo – chi diventa ricco, e chi rimane povero – è determinata da un apparato statale centralizzato nelle mani del presidente e dei suoi accoliti. La nuova Russia – tanto quanto la Cina – è una oligarchia “estrattiva”, per usare il termine datoci da Acemoglu e Robinson. Questi due stati escludono tutti tranne pochi eletti dall’esercizio del potere economico e politico. Non ci sono controlli o bilanciamenti del potere del presidente in Russia. In Cina, il presidente deve trovare un equilibrio con l’esercito e con i membri del Politburo a lui avversi. Ma in entrambe le società, lo stato di diritto e un sistema giudiziario indipendente esistono solo in teoria, non in pratica. Gli oligarchi di conseguenza sanno che se osassero preparare una qualsiasi sfida politica a uno dei due regimi, la legge non li proteggerebbe affatto.

 

Ci sono ovviamente differenze significative fra le varianti cinese e russa del capitalismo autoritario. Nel modello cinese, il partito detiene un ruolo monopolista, e mentre ci sono elezioni pilotate a livello di villaggio, non esiste alcuna pretesa di dimostrare che il sistema sia in alcun modo democratico. La Russia invece fa finta di essere democratica: ci sono garanzie formali istituzionali e hanno luogo le elezioni, ma nessuno ha il minimo dubbio sul fatto che il controllo ultimo rimanga nelle mani della nomenclatura del Soviet e della polizia segreta.

 

Nel caso cinese, il Partito comunista è stato innestato nella tradizione burocratica ereditata dagli imperatori Han. Nel caso russo, il regime governa con la fredda mano della burocrazia zarista e del Soviet, eppure non esiste più alcun ruolo di guida affidato al Partito comunista. In Russia il pluralismo politico è formale, ed esiste solo su carta. Certo, ci sono numerosi partiti politici, ma l’unico ad avere chance è il partito del presidente. Ci sono media liberi, ma solo il partito del presidente ha accesso a quei media che trasmettono oltre San Pietroburgo e Mosca. Il presidente accetta di aver perso la classe media di quelle città, ma non se ne cura, visto che nel cuore profondo della nazione la sua presa sul potere è ancora intatta.

 

Nel caso cinese, il partito tiene sotto stretto controllo le città, mentre tollera sporadico dissenso nei villaggi, dove il risentimento per le restrizioni migratorie, gli espropri di terra e le demolizioni di abitazioni rimangono endemici. L’autoritarismo cinese è, in media, più implacabile ed efficiente di quello russo. La popolazione cinese è tenuta sotto sorveglianza più stretta, i dissidenti sono abitualmente imprigionati e il regime tiene sotto intensivo controllo internet, permettendo agli individui di sfogarsi, ma sopprimendo immediatamente qualsiasi tipo di sfida collettiva al regime. In entrambe le società, le persone sono libere di viaggiare, di fare vacanze dove preferiscono e di emigrare. Sono anche libere di lamentarsi, ma in privato, perché chiunque avanzi una sfida di tipo collettivo, fosse un meeting virtuale in una chat room, o una dimostrazione in strada, può essere messo a tacere con la forza.

 

Sia il regime di Putin sia quello di Xi Jinping hanno colto un paradosso: più libertà privata possono godere i loro cittadini, meno chiederanno di esercitare libertà pubblica. La libertà privata agisce come valvola di sicurezza, atta a contenere qualsiasi scontento relativo alla negazione della libertà democratica. Inoltre, la libertà privata rende possibile efficienti performance sul mercato.

 

Quando Putin e Xi Jinping si sono incontrati recentemente, hanno firmato un accordo pluriennale su energia e infrastrutture che ha messo il sigillo su un’alleanza strategica di lungo termine. Le storiche dispute territoriali sono state messe in quiescenza, e la loro rivalità come poteri regionali in Asia è stata moderata. Ciò che rende stabile la loro alleanza sul lungo periodo è che la Cina sia predominante in modo così netto. Qualsiasi sfida posta dalla Russia al dominio cinese in Asia sarebbe futile. Nel medio periodo, ciò che li unisce, ovviamente, è l’ostilità che condividono verso quello che John Ikenberry ha definito “il leviatano liberale”, gli Stati Uniti e la sua rete globale di avvolgenti alleanze. Per ora, i due stati autoritari hanno pochi amici, ma il loro modello è attraente. Per le élite corrotte in Africa e America latina, la Cina e la Russia offrono un modello che permetterebbe di mantenere lo sviluppo di tipo estrattivo.

 

Mentre gli europei e gli americani credono che la Crimea abbia segnato il momento nel quale l’ordine internazionale post 1989 sia svanito, per i russi e i cinesi la frattura è avvenuta 15 anni prima, quando gli aerei da guerra della Nato hanno bombardato Belgrado e colpito l’ambasciata cinese. Quel momento ha saldato assieme a livello mondiale l’autoritarismo cinese e quello russo. Dal punto di vista cinese e russo, l’ordine internazionale si è frantumato sul Kosovo, ed è il precedente del Kosovo – secessione unilaterale orchestrata da una grande potenza – che Putin usa per giustificare la Crimea, con la cauta approvazione di Pechino.

 

Andando oltre, si può dare per scontato il fatto che entrambe queste grandi potenze useranno il loro seggio nel Consiglio di sicurezza per difendere il dittatore siriano e per boicottare qualsiasi forma di intervento umanitario multilaterale in qualsiasi posto che veda coinvolti direttamente i loro interessi. Ciò che rimane questione aperta è come le due potenze reagiranno alla frammentazione dell’ordine statale in medio oriente. La Russia e la Cina, assieme all’Iran, sono stati i principali beneficiari strategici delle disavventure americane in medio oriente e al momento tutti e tre gli stati sono felici di permettere all’Amministrazione Obama di pagare il prezzo politico per aver permesso che cadesse a pezzi una regione formata dall’influenza americana.

 

Ci sono due questioni predominanti che sorgono con l’emergere del capitalismo autoritario come principale avversario strategico e ideologico della democrazia liberale. La prima è: [queste nazioni] sono stabili? La seconda è: sono aggressive? Le due domande, ovviamente, sono collegate. Gli autoritari instabili sopravvivono attraverso l’aggressione, distraendo le popolazioni scontente con avventure all’estero.

 

Le società autoritarie hanno vantaggi significativi su quelle democratiche. Possono prendere decisioni più rapidamente, schierare risorse di lavoro e capitale con decisioni esecutive, mentre le società democratiche devono prima superare i veti insiti nei loro sistemi. Dato che le società autoritarie sopprimono il dissenso e la molteplicità delle opinioni, possono anche incanalare le emozioni nazionaliste in una potente giustificazione dell’avventurismo oltremare, specialmente quando intervengono per proteggere i loro connazionali nelle nazioni confinanti. I vicini asiatici della Cina devono chiedersi quando il regime inizierà a usare “la protezione” dei cinesi come giustificazione per intromettersi nei loro affari interni.

 

Le oligarchie autoritarie, in ogni caso, sono anche fragili. I loro governanti credono di dover controllare tutto per paura di non controllare nulla in breve tempo. Il loro principale dilemma è come gestire le aspirazioni politiche che sorgono in risposta alla veloce crescita. Sotto Stalin e Mao, le crescenti aspirazioni di libertà di espressione potevano essere schiacciate con la forza. Sotto il nuovo autoritarismo, deve essere concesso un certo grado di libertà privata, condizione prima del progresso capitalista stesso. Quando la crescita segue un percorso capitalista, molti abbienti della classe media devono la loro ricchezza ai loro sforzi, non solamente al partito o alle connessioni politiche. Al crescere della loro autonomia economica, cresce anche la loro richiesta di avere voce in politica, e a meno che i due sistemi non trovino il modo di incorporarsi, tali richieste possono diventare perturbatrici e destabilizzatrici. Il momento cinese di destabilizzazione arrivò in piazza Tiananmen nel 1989; il regime russo fu sfidato da dimostrazioni di massa in piazza a Mosca nel 2012. Entrambi i regimi sono sopravvissuti a tali momenti di crisi schiacciando il dissenso domestico e imbarcandosi in avventure all’estero, ideate per concentrare la classe media attorno a unificatrici cause nazionaliste.

 

La rinnovata assertività cinese in Asia è guidata da molti fattori – incluso il bisogno di trovare fonti energetiche nei mari sui quali affacciano le sue coste – ma anche dal desiderio di riunire la crescente classe media attorno a una visione assertiva di ciò che Xi Jinping chiama il “Sogno cinese”, nel quale la Cina diverrà superpotenza mondiale, non solo egemone regionale.
Nel caso della Russia, i dilemmi strategici sono simili: dare legittimità al potere estrattivo su una fragile e scontenta classe media in patria, e al contempo raccogliere la sfida data dall’accerchiamento dell’alleanza americana sulle sue frontiere. La risposta di Putin a tali sfide è stata simile a quella cinese, ma ha dovuto tenere in considerazione una posizione economica più debole.

 

In ogni caso dovremmo stare attenti a non esagerare tale debolezza. La visione convenzionale del regime di Putin è che stia ormai aggrappato a una società in declino demografico ed economico, con infrastrutture decadenti, sistema sanitario povero e poca protezione sociale. Questo è come minimo un “wishful thinking” – una falsa narrativa che continua, essenzialmente, la visione tipica della Guerra fredda che l’Unione sovietica fosse “l’Alto Volta, con i missili”. Al contrario, l’abbondanza in Russia di risorse naturali le conferisce un certo ammontare di profitti per tutto il XXI secolo, mentre il suo regime limitato di libertà privata crea una valvola di sicurezza che permette al regime di contenere lo scontento democratico. Per milioni di russi, la libertà di viaggiare, emigrare, risparmiare e investire compensa ampiamente l’occasionale brutalità che il regime mostra nei confronti di quelle coraggiose minoranze che continuano a chiedere la fine della regola autoritaria.

 

Questa combinazione unica di libertà privata e di dispotismo pubblico separa il nuovo autoritarismo dal suo passato sovietico e maoista, e probabilmente garantisce la stabilità di entrambi i regimi sul lungo periodo. Di certo questa nuova forma di dominio ha poco appeal ideologico apparente. L’Europa e gli Stati Uniti continuano ad attrarre immigrati da tutti gli angoli del globo, ispirati da una libertà che è sia privata sia pubblica. Nessuno emigra in Russia – o in Cina, se è per questo. Queste sono nazioni da migrazione verso l’esterno. Ma il fatto che il loro capitalismo autoritario non sia attraente per chi vi è esterno non significa che esso difetti di legittimazione o supporto interni.

 

Il regime russo è andato al negozio di antiquariato per rifare il look alla sua legittimazione domestica. Gli ideologisti di Putin fanno eco al “Manifesto dell’autocrazia indistruttibile” di Konstantin Pobedonostsev, apologia influente della regola zarista, scritta subito dopo l’assassinio di Alessandro II nel 1881. Come i suoi predecessori zaristi, Putin ha aggiogato l’Altare e il Trono. Tristi tropi à la Dostoevskij sulla superiorità dei valori spirituali e comunitari russi sono di nuovo popolari fra gli apologeti del regime. L’ostilità ufficiale del regime nei confronti dei diritti gay non è un elemento accidentale, è anzi centrale nell’auto-costruitasi immagine di difensore dei valori tradizionali russi contro il decadente individualismo secolare.

 

L’apologetica autoritarista sia della Russia sia della Cina può non essere attraente, ma le due nazioni non sono ideologicamente aggressive. Fanno una precisa rivendicazione nazionale di legittimità, non una di tipo universale. I governanti cinesi possono credere nella superiorità della civiltà delle Cina, ma non si sono imbarcati in una missione di civilizzazione dell’intero mondo. Mao avrebbe incoraggiato i maoisti dal Perù a Parigi, il regime attuale non ha di queste ambizioni. Può anche volere il potere globale, ma non cerca l’egemonia globale. E lo stesso vale per la Russia. Putin, a differenza di Stalin, non dirà mai che la sua nazione è la casa universale di tutti coloro che cercano emancipazione dal giogo capitalista.

 

In assenza di un’ideologia universalizzante, quindi, i nuovi stati autoritari possono essere aggressivi e nazionalisti nella retorica, ma è poco probabile che siano espansionisti. I governanti cinesi sanno che ci sono ancora diverse centinaia di milioni di poveri contadini da dover integrare in una moderna economia. Ci vorranno decine di anni prima che il loro reddito pro capite si avvicini ai livelli occidentali. Per quanto riguarda Putin, non si può permettere fantasie di potere globale. La sua preoccupazione principale è di difendere gli interessi di stato tradizionali russi, e ciò definisce il contenuto del suo nazionalismo. L’annessione della Crimea per mano sua è, essenzialmente, il ritorno della Russia a quella frontiera sul mar Nero istituita da Caterina la Grande.
Anche se gli obiettivi di base di Putin sono interessi statali di tipo tradizionale, rimane aperta la questione su quanto esattamente egli intenda sia estesa la sfera di influenza della Russia. Gli stati baltici, gli stati dell’est Europa una volta parte del blocco sovietico, la Georgia, l’Armenia, tutti si stanno ponendo questa domanda. Un ex agente del Kgb il cui momento più buio è coinciso con il dover bruciare i libri in codici del Soviet nella stazione del Kgb a Reseda nel novembre del 1989 deve per forza avere nostalgia della paura che lo stato sovietico era in grado di instillare nei nemici, in patria e all’estero. Come agente del Kgb, Putin è un epicureo della paura, ma qualsiasi maestro di tale arte ha bisogno di sapere quanto in là si può spingere. Putin è un realista. Sembra capire sia l’estensione sia i limiti della sua capacità di intimidire e controllare.

 

Nel 2005, quando il presidente macedone gli comunicò che la Macedonia stava per richiedere l’ingresso nella Nato e nell’Ue, si dice che Putin lasciò cadere la cosa con un gesto della mano, dicendo che la Macedonia non era né la Georgia né l’Ucraina. Il suo pubblico balcanico concluse che la Russia non sarebbe intervenuta per impedire che gli stati balcanici entrassero nella Ue o nella Nato.

 

Se i Balcani sono al sicuro, per il momento, lo stesso si può dire per gli stati baltici. Per quanto si parli costantemente della “protezione” dei russofoni nelle immediate vicinanze, sembra poco probabile che Putin intervenga in uno qualsiasi degli stati baltici, a patto che la garanzia di sicurezza dell’Articolo 5 della Nato rimanga credibile. Sarà soddisfatto di tenere le popolazioni baltiche sul chi vive, di costringerle a rispettare i diritti della minoranza russa e a spendere più di quanto vorrebbero per la difesa. Putin non toccherà neppure la Polonia, la Repubblica ceca, la Romania o la Bulgaria. Accetta che essi abbiano lasciato la sua orbita anche se i suoi servizi segreti faranno tutto il possibile per destabilizzare le loro politiche.

 

La Georgia e l’Ucraina sono una cosa completamente diversa. Permettere i diritti per una base Nato nel mar Nero avrebbe potuto ledere l’accesso della Russia al Mediterraneo attraverso gli stretti turchi, e quindi limitare la sua capacità di rifornire il suo alleato siriano e contrastare l’influenza americana in medio oriente. Tutte questioni strategiche che sarebbero state facilmente riconducibili al principe Gorchakov o a qualsiasi diplomatico zarista del XIX secolo. Ugualmente tradizionale – e molto russa – è stata la creazione di relazioni privilegiate politiche ed energetiche con le repubbliche islamiche alla frontiera meridionale. I loro governanti islamici sono tributari fin dai tempi degli zar. L’Ucraina, come tutti sanno, era anch’essa parte dell’impero russo, ma per ora il rifiuto da parte di Putin di aiutare direttamente i separatisti sembra suggerire che la sua strategia non sia di riprendersi l’Ucraina, ma piuttosto di rendere la vita del nuovo regime ucraino più difficile possibile. Vuole destabilizzare l’Ucraina senza doverne gestire lui i numerosi problemi. La relativa equanimità con la quale ha salutato il nuovo patto Ue-Ucraina implica che potrebbe essere fin troppo contento che l’Unione europea sia zavorrata dal costo esorbitante che dovrà sostenere per rimettere in sesto l’economia ucraina. L’ingresso dell’Ucraina nella Nato, d’altra parte, rappresenterebbe uno smacco eccessivo. “Fin qui, e non oltre”, pare essere il cuore del messaggio di Putin all’occidente. Questa è una politica difensiva piuttosto che espansionista.

 

Eppure la questione non si chiude qui. Il modo nel quale la crisi ucraina si svilupperà in futuro dipende da come Europa e Russia implementeranno la loro interdipendenza economica in un’èra globale. Chi ha più bisogno l’uno dell’altro? La dipendenza della Germania dal gas russo implicherà che Merkel opporrà resistenza alle sanzioni settoriali, se Putin decidesse di dare un aiuto fattivo alla secessione nell’Ucraina orientale? Oppure sarà Putin a concludere che ha bisogno dei mercati energetici della Germania per aiutare i dissenzienti a Donetsk? Questo tipo di domande è inquietante, ovvio, perché ce le siamo già poste – nel 1914 – e abbiamo dato loro le risposte sbagliate. Nel 1914, pensatori influenti hanno erroneamente assunto che la globalizzazione fosse così avanzata che gli interessi comuni fra le nazioni avrebbero prevalso sul fervore nazionalista, l’indignazione morale e l’amareggiata memoria. Oggi, nell’èra della globalizzazione di Google, Microsoft, Apple e Gazprom, siamo forse ancor più vulnerabili a tale modello di narrativa.

 

Appena sotto la superficie della crisi ucraina sobbollono emozioni di forza vulcanica, due narrative di genocidio in concorrenza fra loro – una russa, l’altra ucraina – che non possono riconoscere la verità che sta nell’altra versione. Nella narrativa russa dei nazionalisti ucraini come “fascisti” si apposta la velenosa memoria storica del fatto che molti ucraini diedero il benvenuto all’invasione nazista del 1941 come liberazione dal giogo sovietico, e molti altri collaborarono con i tedeschi nello sterminio degli ebrei ucraini. Nella opposta narrativa ucraina, il disegno globale di Putin è di restaurare il dominio sovietico, quello stesso dominio che ebbe come risultato la carestia forzata per sette milioni di contadini ucraini fra il 1931 e il 1938. In quelle che Timothy Snyder ha in modo così convincente definito le “lande del sangue”, la memoria dell’Holodomor rivaleggia con quella dell’Olocausto.

 

Questi materiali combustibili devono essere tenuti a mente in qualsiasi momento si sia tentati di pensare che la crisi ucraina abbia subito una de-escalation significativa. Ci vuole solo una scintilla – un assassinio, un attacco non provocato di un gruppo contro l’altro – per accendere un rogo in Ucraina e far intervenire i russi, questa volta in piena formazione. Il vero pericolo non è che Putin si prenda l’Ucraina, ma che perda il controllo degli eventi una volta che il calderone della memoria storica sia traboccato.

 

La politica saggia deve in questo caso tenere quel calderone ben sotto il punto di bollore. Sia la Russia che l’occidente hanno un interesse convergente a una de-escalation della retorica dell’insulto e dell’ingiuria. Nel lungo periodo, l’Europa dovrebbe fornire all’Ucraina un percorso verso l’integrazione europea. Le istituzioni finanziarie internazionali dovrebbero usare la condizionalità dei prestiti per costringere l’élite politica ucraina corrotta a raddrizzare la situazione, aprire la sua economia, devolvere il potere verso le regioni e – altrettanto importante – garantire ai russofoni un posto all’interno del futuro politico ucraino. Allo stesso tempo, la questione dell’ingresso ucraino nella Nato dovrebbe essere ritardata, come concessione alle preoccupazioni russe, ma tenuta “in riserva” per mitigare le paure ucraine.

 

In effetti, la politica dovrebbe bilanciare due obiettivi in contrasto: difendere l’indipendenza e l’integrità territoriale ucraina e al contempo rispettare la sfera di influenza russa sulla regione.

 

Una politica saggia in Ucraina dovrebbe anche assicurare il supporto domestico fra gli elettorati europei. E qui la crisi mette a nudo un problema ancor più profondo. Nello stesso momento in cui “più Europa” sembra offrire una soluzione alla crisi ucraina, gli elettorati britannico, francese e tedesco sembrano voler dire “meno Europa”. I votanti del prospero nord sono stanchi di salvare le economie del sud e cresce l’allarme per le migrazioni verso il nord di rumeni, bulgari e altri europei dell’est. Un ulteriore allargamento – che potrebbe dare stabilità sia all’Ucraina sia agli stati balcanici – è divenuto estremamente impopolare. La crisi ucraina arriva precisamente nel momento in cui la soluzione – più Europa – ha perso legittimazione nella stessa casa europea.

 

Ancora una volta, la memoria di Sarajevo 1914 dovrebbe portare la nostra mente a focalizzarsi su ciò che davvero c’è in ballo. Posti lontani, dei quali gli europei occidentali sanno poco o nulla, possono trovare il modo di sovvertire l’ordine statale di un intero continente. Il progetto europeo fin dal 1945 è venuto alla luce per fornire un’alternativa alle strutture della regola imperiale che hanno fallito così miseramente nel 1914.

 

Il presupposto più profondo del progetto europeo è che il continente è uno solo – dall’Irlanda all’ovest al confine polacco all’est, da Stettino nel Baltico, come ebbe a dire Churchill, a Costanza sulla costa del mar Nero. Gli europei hanno perso di vista un ideale tanto semplice quanto affascinante: un mercato, una popolazione che parla molte lingue e pratica diversi tipi di democrazia, tutti impegnati a far finire la guerra nella grande casa dell’Europa.

 

Molte cose sono andate male nel progetto europeo: troppa burocrazia, troppo immischiarsi nelle prerogative legittime degli stati sovrani, troppo poco sviluppo reale di una politica estera e di difesa davvero europea, troppe faide grette fra capi di governo, il tutto contornato dalla crescente disillusione degli europei nei confronti dell’intero progetto.

 

Non voglio negare la forza di tale disillusione, o mettere in dubbio la necessità di riformare le istituzioni europee. Voglio solo che gli europei, e in special modo gli europei britannici, si ricordino per cosa esiste l’Europa. Se l’Europa fallisce nel suo tentativo di integrare gli stati balcanici e l’Ucraina nel più breve tempo possibile, se questi stati dovessero essere lasciati a languire a metà strada per una decina d’anni o più, come molti pensano al giorno d’oggi, allora rischieremmo di creare un vuoto di sicurezza che sarà riempito volentieri dalla Russia, con conseguenze negative per la sicurezza europea.

 

Queste implicazioni del dibattito europeo sono completamente assenti dalla discussione nel Regno Unito sulla permanenza o sull’uscita dall’Ue, e sono completamente assenti nel dibattito a livello europeo, mediocre e miserabile, sul controllo da applicare all’immigrazione. Gli europei devono alzare lo sguardo da se stessi per vedere cosa ha davvero importanza. Permettere che l’Europa si divida in due, permettere che un secondo continente sulla frontiera sudorientale languisca sulla porta del club, è una sicura ricetta per il disastro. Convincere gli elettorati europei di ciò richiederà tempo. I leader europei nel prospero nord dovranno inghiottire amari bocconi e persuadere il loro riluttante elettorato che una piena integrazione è il costo della pace.

 

Ciò che c’è in ballo per l’America nella crisi ucraina è in qualche modo ancor più grande. Ciò che importa agli Stati Uniti è il confronto con due regimi capitalisti autoritari, che pongono sfide sistemiche all’ordine capitalista liberale e democratico. Tale ordine, come Sir Adam Roberts ha ricordato al pubblico a Sarajevo, è pluralista come ogni ordine liberale deve essere. Ciò implica che non deve affrontare il rigurgito di autoritarismo della Russia e della Cina con la pretesa morale che la democrazia liberale sia l’unico modo accettabile di dare ordine alle relazioni politiche. Un ordine liberale deve accettare le differenze fondamentali fra le visioni morali e le organizzazioni politiche, perché solo un ordine pluralista può garantire la pace. E’ il caso di ricordare che il contenimento, per quanto molti policy maker contemporanei russi e cinesi possano odiare tale parola, non cercava di far sparire l’autoritarismo o di sfidare le sue zone di influenza. La dottrina di George Kennan non predicava la democrazia liberale come una virtù da imporre agli altri. La sua era una dottrina mirata a evitare la guerra in un mondo pluralista.

 

I nuovi autoritari non possono essere cambiati, ma possono essere contenuti e si può aspettare la loro fine. A tale scopo, gli Stati Uniti dovrebbero fare ciò che possono per tenere separati i due autoritari, per costruire relazioni con ciascuno che offrano loro alternative di più grande integrazione di quella dell’uno con l’altro. E’ anche ovvio che gli Stati Uniti dovranno fornire un deterrente credibile via terra, aria o mare a qualsiasi minaccia autoritaria all’integrità territoriale dei loro alleati, dal Baltico al mare Cinese. Ma il bilanciamento strategico sarà difficilmente sufficiente, perché ci sarà bisogno di vincere la battaglia delle idee, non sui profondi mari dell’Asia orientale, sui confini desertici dell’Iraq e della Siria, o sulle lande di sangue dell’Ucraina. La vera battaglia ha luogo in patria.

 

Se il capitalismo autoritario è la sfida emergente all’ordine liberale del XXI secolo, la risposta necessaria è la riforma della democrazia liberale in patria. Ciò che mette in allarme gli alleati dell’America non è l’indebolimento della credibilità delle sue garanzie strategiche. Il potere americano rimane straordinariamente credibile quando usato con razionalità e senno. Il vero problema sta nella disfunzione democratica in patria: i vent’anni di impasse fra il Congresso e l’esecutivo, la polarizzazione fuori dalla realtà della discussione politica, il fallimento clamoroso di un controllo del potere detestabile del denaro sulla politica, le infrastrutture domestiche in declino e la pubblica disillusione riguardo alla democrazia stessa. Non sono malcontenti tipici solo dell’America. Altre democrazie liberali affrontano sfide simili, ma hanno sotto controllo il potere del denaro sulla politica e hanno ribilanciato i loro sistemi politici affinché la parte esecutiva e quella legislativa funzionino in modo efficace. Per fortuna, non tutto il mondo è America, e altri sistemi democratici offrono a società in via di sviluppo una varietà di modi convincenti per “raggiungere la Danimarca”, per usare l’azzeccata espressione dell’economista Lant Pritchett.

 

Eppure l’America resta la democrazia il cui stato di salute determina la credibilità del modello capitalista liberale stesso nel mondo. Ci sono molte ragioni per le quali il progresso della democrazia liberale dal 1989 è stato controllato – perché ci sono meno democrazie oggi di quante ce ne fossero nel 2000 – ma una di queste potrebbe essere la diminuita attrattiva del modello americano per le popolazioni che cercano una soluzione ai loro problemi di ordine politico.

 

Un ancor più profondo problema è la disillusione americana nei confronti delle sue stesse istituzioni. La capacità dell’America di essere leader all’estero è dipesa sempre di più dal singolo carattere del presidente di turno. Viene dalla fiducia in se stessi dell’intera società nel valido combattimento del dibattito democratico, assieme alla fede ampiamente condivisa nell’idea ugualitaria, cuore del sogno americano. Questi elementi di fede erano più forti che mai nella grande generazione che tornò a casa vittoriosa dalla Seconda guerra mondiale. La leadership che ha portato nel mondo era costruita sulla potenza americana, certo, ma anche sul fatto che la fede delle persone nelle istituzioni e nell’uguaglianza avesse solide basi in America. Questi sono gli elementi che sono stati fiaccati da cinquant’anni di avventure all’estero mal concepite, dal Vietnam all’Iraq, e da una crescente disfunzione democratica in patria.

 

Gli ultimi cinquant’anni, dal Vietnam in avanti, non sono stati felici per gli Stati Uniti, e questo ha scatenato una successione di narrative sul declino secolare americano. Per alcuni la retorica del declino americano è una fonte di schadenfreude, per altri una fonte di allarme, ma in entrambi i casi la narrativa del declino americano appare falsa. Non prende infatti in considerazione l’evidenza storica della capacità americana di rinnovamento istituzionale – nell’età del progressismo, nel New Deal, nella Nuova Frontiera e nella Rivoluzione Reaganiana. Non tiene neppure in considerazione i dati incontestabili della posizione di comando delle aziende americane nei settori trainanti della tecnologia – che daranno forma al XXI secolo.

 

Predire il declino americano è stupido o prematuro, ma in entrambi i casi ciò non significa che l’America non stia affrontando poderose istanze di rinnovamento. Richard Haas, presidente del Consiglio relazioni internazionali, ha sicuramente ragione quando dice che una politica estera rinnovata e in grado di affrontare le sfide del nuovo autoritarismo deve prendere piede in patria, con una riforma determinata della democrazia americana. Il presidente Obama ha anch’esso sicuramente ragione quando dice che il costruire una nazione all’estero può attendere: dobbiamo dare priorità alla costruzione della nazione in patria infatti. La sfida del nuovo autoritarismo è mettere ordine nella struttura americana, dare nuova vita fra la sua stessa popolazione alla fiducia nel fatto che la democrazia liberale possa riformare se stessa fino ad affrontare le istanze che il momento storico pone. Se la disfunzione democratica dovesse continuare, il rischio sarebbe non solo il declino domestico, ma anche un orrido avventurismo estero – dato che non è solo l’autoritarismo a trovare appetibile la distrazione del pubblico domestico attraverso avventure oltremare. Dopo la Crimea, dopo l’ascesa del califfato sanguinario sulle sponde del Tigri, dopo le crescenti tensioni nel mare Cinese, non abbiamo bisogno di ulteriori stupide avventure all’estero, e ancora meno bisogno abbiamo di parole che non siano sostenute da accordi reali. Abbiamo bisogno che Europa e Stati Uniti siano luoghi dove le popolazioni credano, ancora una volta, nelle loro stesse istituzioni, e dove si abbia la possibilità di provare, all’interno della pacifica competizione, che si possano accogliere e vincere le sfide del nuovo autoritarismo.

 

(Discorso tenuto alla Ditchley Foundation il 12 luglio scorso. Traduzione di Marion Sarah Tuggey)