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l'analisi

Perché quella contro l'Iran è una guerra da vincere

Andrea Graziosi

Israele combatte per la sopravvivenza, ma una sconfitta del regime iraniano converrebbe anche a Europa e  Stati Uniti e potrebbe portare a una riduzione delle tensioni nel mondo

Israele e Iran sono in guerra da una settimana e quindi non ha per ora senso chiedersi se sia stata una scelta giusta o sbagliata. La guerra già c’è e finirà con la vittoria piena o relativa di uno dei due contendenti, visto che al contrario di quello russo-ucraino non è un conflitto tradizionale sul terreno, che può finire con un armistizio. Certo, Israele potrebbe forse “contentarsi” di aver inflitto un danno e quindi un ritardo sostanziale al progetto atomico iraniano e consentire a dei negoziati che lo portino sotto un ancorché relativo controllo. Ma una conclusione negoziale che lasciasse Teheran nelle condizioni di costruirsi l’atomica – cosa che prima o poi avrebbe fatto e proverà a fare con rinnovata energia alla luce di quanto sta avvenendo – costituirebbe invece una grave sconfitta dello stato ebraico. Ciò farebbe piacere a molti, un piacere raddoppiato dalla sanzione del tramonto di un occidente “collettivo”,  che esiste ormai solo – come soggetto attivo e vitale, ché sue imponenti rovine sono ancora in piedi e potrebbero essere utilizzate per costruire un futuro nuovo – nelle teorie del complotto alimentate da Mosca, e nelle illusioni di molti “occidentali” che invece ancora esistono, illusioni dure a morire perché eredità di decenni straordinari.  

Ma dovrebbe spingere altri a chiedersi quanto sia utile insistere oggi per una “soluzione negoziale” non ben definita, come sembrano fare, al di là del loro scarso peso, i paesi europei, visto che a meno di impedire la prosecuzione del programma nucleare iraniano essa equivarrebbe a una sconfitta di Israele e alla trasformazione dell’Iran in una intoccabile e minacciosa potenza nucleare. Mi sembra quindi più utile chiedersi che guerra sia, in che termini sia giusto analizzarla e che impatto essa potrebbe avere sui due contendenti e sul medio oriente certo, ma anche su noi europei e sugli equilibri mondiali, e in particolare sul ruolo degli Stati Uniti in essi. Parto da quello che ritengo l’errore analitico più frequente, basato su una analogia sbagliata. Il primo consiste nel legare l’esito della guerra alla natura del futuro governo iraniano, mentre la seconda sta nel paragone tra questa guerra e conflitti terrestri – come quelli in Iraq o in Afghanistan – ispirati dalla buona intenzione di esportare la democrazia, associando alla guerra uno sforzo di ricostruzione statale in senso liberale e democratico.


Malgrado qualche dichiarazione tesa ad accattivarsi qualche simpatia, per Israele non si tratta però di una guerra ideologica, come dimostra anche il mancato ricorso al vastissimo arsenale “discorsivo” che sarebbe possibile usare contro il regime iraniano. Essa è piuttosto, e decisamente, una guerra per la sopravvivenza innescata dal 7 ottobre ma in preparazione da molti anni. L’attacco di Hamas, probabilmente concordato con Teheran, Hezbollah e Damasco, mirava anche a vanificare l’accordo tra israeliani, Egitto, Giordania e stati sunniti del Golfo sostenuto da Washington. Esso ha però confermato agli occhi di Tel Aviv, e rivelato a chiunque voglia vedere, che dietro questo obiettivo politico c’era la decisione e soprattutto la voglia feroce di arrivare alla soluzione finale della presenza ebraica in medio oriente, del resto più e più volte auspicata da Teheran.


Come è nella sua dottrina, Israele – stato nato dal più perfetto genocidio mai concepito e che non ha per questo mai aderito ai trattati di non proliferazione – ha quindi scatenato una guerra per la sua sopravvivenza, prima contro Hamas a Gaza, dove si è scontrata con difficoltà facilmente immaginabili che sconsigliavano un’invasione resa purtroppo inevitabile dal 7 ottobre (il successo militare, forse più vicino di quanto molti, me compreso, ritenevano possibile, non bilancia in questo caso il danno umano e politico). Questa guerra è proseguita contro Hezbollah, con un successo superiore alle previsioni, ed ha portato al crollo del regime siriano, una grandissima sconfitta per Teheran, Hamas, Hezbollah, ma anche per Mosca. Su quest’onda e forse anche, ma direi non soprattutto, per risolvere le sue difficoltà politiche interne, Netanyahu ha dato il via a un’operazione in evidente preparazione da anni, come lo era anche quella contro Hezbollah, probabilmente nella speranza di riuscire a portare con sé la Washington di Trump, che aveva mandato nel tempo segnali in questo senso. 


Dire quindi che Israele sta combattendo per l’“occidente” e che questa guerra mira a un regime migliore in Iran mi sembra sostanzialmente falso. Essa è piuttosto l’ultima e più difficile tappa di un’operazione per eliminare un nemico mortale o almeno renderlo il più inoffensivo possibile per qualche decennio. Poi certo, la storia continuerebbe il suo corso, ma da un nuovo punto di partenza e seguendo una nuova traiettoria. Da questo punto di vista si tratta quindi di una guerra tradizionale (ma non “normale”, anche per il suo essere combattuta a distanza). Essa è cioè simile a molte guerre del passato in cui, se si escludono quelle di conquista, alla sconfitta del nemico seguiva il relativo disinteresse del vincitore: come scrisse nel 1868 Londra all’imperatore di Etiopia, appena battuto, “il governo di Sua Maestà non è interessato a quanto potrà accadere all’Abissinia… Il futuro che l’attende, il tipo di governo che essa avrà o quali guerre civili e disordini vi si verificheranno non sono tra le sue preoccupazioni. In base all’umanità, il governo di Sua Maestà auspica che il paese sia ben governato e il suo popolo felice e prospero; ma esso non considera sua responsabilità favorire o sostenere questo o quel governo o regnante…”.


In questa prospettiva, a sembrare anomala è l’ideologia, che ha cominciato a prendere forma al Congresso di Vienna, ha toccato un primo picco alla fine della Prima guerra mondiale, trionfato dopo la Seconda e raggiunto la sua acme nel 1991e negli anni ad esso successivi, secondo la quale le guerre si fanno per far del bene, esportare la democrazia o il socialismo, e comunque in nome dell’umanità. Questa impostazione, basata su illusioni che erano tali anche allora e su rapporti di forza che non ci sono più, è fallita relativamente in Iraq (dove vi è comunque oggi un governo più vicino alle preferenze della maggioranza degli abitanti) e tragicamente in Afghanistan col catastrofico ritiro del 2020, e prodotto danni anche altrove, dalla Libia ai Balcani alla Somalia. Porsi quindi oggi problemi del genere sarebbe un atto al tempo stesso presuntuoso e arrogante, anche perché solo gli iraniani potrebbero scegliere che ricostruzione fare, se ne avessero la possibilità.

Tra chi ha pagato il prezzo dei fallimenti di queste guerre “illuminate” si contano anche i tanti soldati americani mandati a combatterle, spesso provenienti dalla parte più energica e capace degli strati più poveri della popolazione, di cui Vance è un rappresentante. Questi ex militari, delusi dal repubblicanesimo di Bush Jr. e Cheney ma anche sprezzanti nei confronti delle politiche di Obama verso la Siria e della ritirata di Biden da Kabul, sono decisamente ostili a nuovi interventi, anche perché non vedono la differenza, che pure c’è, tra questo conflitto e quelli che hanno sperimentato. Essi costituiscono oggi una delle più salde basi del Maga trumpiano che ha in loro una delle principali componenti della sua forte anima isolazionista, mascherata dall’aspirazione a una rinnovata grandezza. Quelle che sono sembrate le esitazioni di Trump sono anche lo specchio di questi sentimenti, di cui Trump stesso ha dovuto tenere conto. 


Se è così, la domanda giusta da porsi oggi è se si vuole o meno la sconfitta dell’Iran di Khamenei, e ancora più banalmente se essa “ci conviene”, rifuggendo da giudizi di valore e preferenze ovviamente lecite (che ho anch’io). A me sembra che la scomparsa dell’Iran teocratico e aggressivo come grande potenza del medio oriente convenga, e molto, oltre che a Israele, tanto ai paesi europei che agli Stati Uniti, per esempio rafforzando i loro rapporti cogli stati sunniti e indebolendo il blocco riunito intorno a Pechino cui l’Iran appartiene. Questa scomparsa converrebbe anche agli iraniani, alla stragrande maggioranza dei paesi e delle popolazioni arabe e all’Ucraina, perché assesterebbe un nuovo, durissimo colpo a Putin, che si vedrebbe privato di un altro sostegno importante. Sarebbe una nuova conferma degli esiti fallimentari, anche per gli interessi della Russia, delle sue politiche, che hanno già sortito l’adesione alla Nato di nuovi paesi, contribuito al crollo di Assad, e inimicato gli ucraini per generazioni, oltre a portare isolamento e crescenti difficoltà ai russi. La sconfitta del potere iraniano nato nel ‘79 con l’ascesa di Khomeini potrebbe quindi anche avvicinare una soluzione almeno armistiziale del conflitto russo-ucraino, e garantire a Kyiv condizioni migliori. 


Più in generale questa sconfitta potrebbe portare a una riduzione delle tensioni del mondo. Non è però detto che essa si verifichi, perché, come tutte le guerre, insomma, anche questa si può vincere o perdere. Ma una vittoria potrebbe appunto portare a nuovi equilbri in medio oriente, indebolire Putin e con lui il blocco politico costruito intorno alla Cina e forse guadagnare più tempo alla costruzione di nuovi rapporti e nuove alleanze capaci di riportare nelle relazioni internazionali almeno un minimo di ordine e di razionalità, e di una forza comune capace di rappresentarli. Temo invece che la spinta alla proliferazione nucleare, già alimentata dall’impunità russa (che deve molto al suo arsenale atomico) si rafforzerà ulteriormente perché il bombardamento americano dell’Iran conferma oggi agli occhi di tutti i governanti del mondo l’idea che solo un proprio ombrello atomico è reale garanzia di indipendenza (purtroppo, però, esso è pure un acceleratore di futuri conflitti nucleari), ponendoli di fronte a scelte difficili. Si deve sperare che i “volenterosi” europei siano alla loro altezza.

 

Le ultime righe di questo articolo sono state riscritte dopo l’inizio dei bombardamenti americani.

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