
Le minacce incrociate di Trump e Khamenei
Il presidente americano e la Guida suprema mettono in primo piano i loro ultimatum. Bombardieri e diplomazia si muovono in contemporanea
Giovedì 18 giugno sono sette giorni che Israele e la Repubblica islamica dell’Iran sono in guerra aperta. Al giorno numero sei del conflitto, la Guida suprema Ali Khamenei è apparsa davanti alle telecamere per un discorso rivolto agli iraniani e al presidente americano Donald Trump. Khamenei era in un posto chiuso, parlava seduto su una sedia con alle spalle una tenda marrone, il ritratto dell’ayatollah Khomeini e vicino la bandiera della Repubblica islamica. La posa, la ripresa tanto stretta, la bassa qualità del video ricordavano i discorsi di Hassan Nasrallah, il leader storico del libanese Hezbollah, che per paura di essere eliminato dagli israeliani viveva in un bunker dal 2006, si spostava dall’uno all’altro solo con caute misure di sicurezza e Tsahal lo ha raggiunto lo scorso anno. Per Khamenei parlare da dentro un rifugio non è un messaggio di forza, ma nel suo discorso ha voluto dire agli iraniani e al mondo che “gli americani dovrebbero sapere che qualsiasi intervento militare statunitense sarà accompagnato da danni irreparabili”. E ancora: “Le persone intelligenti che conoscono l’Iran (...) non ci parleranno mai con un linguaggio minaccioso”. Secondo Beni Sabti, analista, ex ricercatore per Tsahal, nato in Iran e poi fuggito in Israele nel 1987, le parole di Khamenei sono il modo del regime per dire: non è questo il modo di parlarci, ma in altro modo siamo pronti a parlare. La Guida suprema ha rifiutato la “resa incondizionata” che Trump gli aveva chiesto martedì, ma non ha chiuso a un negoziato.
Dietro le quinte, la diplomazia si sta muovendo, segno del fatto che Trump non ha rinunciato a trattare. Amwaj media ieri ha riportato il resoconto di una fonte vicina ai negoziati, secondo il quale gli americani, tramite l’inviato speciale per il medio oriente, Steve Witkoff, avrebbero presentato all’Iran una nuova proposta di accordo sul nucleare e il ministro degli Esteri iraniano, Abbas Araghchi, avrebbe risposto agli Stati Uniti con un no che la fonte del portale specializzato con sede a Londra definisce “cortese, ma con una buona spiegazione”.
Donald Trump ieri, dimostrando soddisfazione per avere il mondo appeso alla sua decisione se entrare in guerra o no, ha detto “forse lo farò, forse no”. La realizzazione dell’attacco americano contro le strutture nucleari iraniane, con i bombardieri in grado di sganciare la bomba bunker buster per spazzare via l’impianto di Fordo, è di competenza di Micheal Kurilla, il capo del Centcom che non ha mai smesso di coordinarsi con Israele e di pianificare l’attacco nonostante l’Amministrazione Trump fosse contraria. Questi ultimi giorni hanno dimostrato che il presidente americano è influenzato da varie correnti, che sulla guerra contro l’Iran la pensano in modo opposto e sono in grado di prendere il sopravvento a fasi alterne. La decisione di Trump di partecipare all’attacco o meno si muove in balìa dei moti trumpiani, ma può cambiare la guerra e la percezione della presenza degli Stati Uniti nella regione.