in medio oriente

La seconda fase del piano di Israele contro l'Iran

Micol Flammini

Tel Aviv va avanti, Teheran risponde, Trump dice di non toccare Khamenei e manda due messaggi contrastanti sull'impegno americano. Cosa serve per disintegrare il programma nucleare iraniano

Dopo il 7 ottobre, gli israeliani continuavano a ripetere che l’attacco di Hamas ai kibbutz del sud era il più grande fallimento dai tempi della guerra del Kippur,  quando l’establishment militare e politico, nel 1973, ignorò i segnali che indicavano un attacco imminente da parte dell’Egitto e della Siria contro il territorio dello stato ebraico. Fu un disastro, Israele si sentiva infallibile, credeva che la guerra dei Sei giorni avesse reso il paese invulnerabile e che i vicini non avrebbero osato attaccare di nuovo. Israele aveva abbassato la guardia. Nel 1973, le mancate precauzioni, gli avvisi accantonati causarono la morte di quasi tremila israeliani. Israele riuscì comunque a vincere la guerra, ma nonostante la vittoria, quel che rimane del Kippur è un senso di sconfitta. Dopo l’attacco di Israele all’Iran, c’è un altro paragone che gira e che i commentatori israeliani tirano fuori sempre più spesso, dicendo che l’attacco preventivo di Israele ricorda quello della guerra dei Sei giorni. 

Nel 1967 Tsahal non stette a guardare l’esercito egiziano che ammassava truppe nel Sinai e decise di iniziare la guerra. C’è un gran dibattere in Israele se il parallelismo sia adatto o meno, il giornalista israeliano  Nadav Eyal condivide le similitudini, ma evidenzia le differenze: il fronte interno, un conflitto  molto lungo che va avanti da oltre un anno e mezzo. La guerra dei Sei giorni fu straordinaria per i suoi risultati e per la sua durata: dopo una settimana, chi era stato chiamato a combattere tornò al lavoro e il paese ripartì. 


Cosa accadrà in questa prima guerra tra Israele e Iran lo deciderà anche la lunghezza del conflitto e ci sono dei segnali da considerare. “Si inizierà  a cercare una via d’uscita – dice Denny Citrinowicz, ricercatore dell’Inss – e le variabili da tenere in considerazione sono tre. La prima è se gli Stati Uniti, come chiesto da Israele, inizieranno a partecipare alla guerra. La seconda, se Tsahal deciderà di attaccare le infrastrutture civili nel tentativo di mettere paura al regime iraniano riguardo a una possibile, ma secondo me poco probabile, ribellione interna. La terza variabile da osservare è la quantità di missili che l’Iran continuerà a mandare. Il numero è importante. Teheran dispone di circa duemila missili, secondo i calcoli dell’intelligence americana. Se inizierà a usarne sempre meno vorrà dire che è a corto”.

Questa domenica l’Iran ha attaccato nel pomeriggio, non sono stati segnalati impatti sul territorio israeliano. Israele sta pagando un prezzo alto per questa guerra, i cittadini  morti nei primi tre giorni di bombardamenti iraniani sono tredici. Dal punto di vista militare ha ottenuto grandi risultati, di fatto controlla lo spazio aereo sopra Teheran e nelle regioni occidentali del paese, ma i suoi successi, senza il sostegno americano, rischiano di ridursi. L’obiettivo dell’operazione Am Kelavi (Leone che si erge) è quello di eliminare il programma missilistico dell’Iran e distruggere quello nucleare. Il cambio di regime non fa parte dei piani. Finora Israele è riuscito a ritardare il programma nucleare,  per disintegrarlo, ha bisogno dell’intervento americano, o almeno che gli Stati Uniti forniscano le bombe bunker buster in grado di distruggere gli impianti nucleari per l’arricchimento dell’uranio a livello militare che si trovano nel sottosuolo, come Fordo, costruito in una montagna. “Senza il sostegno americano, dice Citrinowicz, è difficile che i successi israeliani possano essere implementati”. Potrà continuare a colpire i vertici militari – oggi sono stati uccisi Mohammad Kazemi, capo dell’intelligence dei pasdaran, e il suo vice, Hassan Mohaqqeq – e a dimostrare di sapere come avvicinarsi alla Guida suprema Ali Khamenei, anche se Trump ha messo il veto sulla sua eliminazione. Ma senza le bombe americane, le centrifughe per l’arricchimento dell’uranio nascoste nel ventre dell’Iran rimarranno intatte  e il regime sfrutterà  questo mancato obiettivo per parlare di vittoria contro “l’entità sionista” – è questo il nome con cui il regime della Repubblica si rivolge a Israele. 

Sta all’Amministrazione di Donald Trump prendere una decisione riguardo al sostegno da fornire a Israele. Finora i funzionari americani hanno detto di non essere collegati all’operazione contro Teheran, di esserne stati soltanto  informati. L’azione militare contro l’Iran ha scombussolato la squadra di Trump, divisa in due fazioni: nei primi momenti della presidenza ha avuto la meglio la fazione pronta a negoziare  qualsiasi accordo pur di ottenerne uno. Negli ultimi tempi, Israele è riuscito a convincere Trump della necessità di attaccare l’Iran, ed è stato aiutato dagli ambienti americani meno inclini a un negoziato  portato avanti alle regole degli iraniani. Oggi il presidente americano ha mandato due messaggi discordanti. Sulla sua piattaforma Truth ha scritto: “Iran e Israele devono stringere un accordo, e lo faranno, come hanno fatto India e Pakistan … Ci sarà presto la pace tra Israele e Iran”. In un’intervista alla Abc invece il presidente americano ha detto di  non escludere di intervenire in guerra dalla parte dello stato ebraico. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che cerca di attirare l’attenzione di Trump, ha detto di avere prove concrete dei piani iraniani per uccidere il presidente americano. 

Khamenei è al potere da trent’anni, la sua eredità da più di un anno è una disfatta. Una fonte ha raccontato al Jerusalem Post che l’Iran ha chiesto a Qatar e Oman di mediare per un cessate il fuoco.  

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)