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la guerra è lunga

L'effetto della Ragnatela ucraina sui russi si vede già. Ma serve un logoramento finanziario di Mosca

Nona Mikhelidze

L’Ucraina colpisce duramente la strategia russa con attacchi sofisticati ma la via realistica per fermare la guerra è aumentare il costo strategico per Putin. Nel frattempo l'Europa è chiamata ad assumersi le proprie responsabilità

Nel cuore della guerra che da oltre quattro anni lacera l’Ucraina, pochi giorni fa – come ampiamente riportato – un’operazione militare ha inflitto alla Russia uno dei colpi più duri e simbolicamente significativi dall’inizio del conflitto. Non si è trattato di un’avanzata sul campo, ma di un attacco aereo ad altissima tecnologia: 41 velivoli russi, tra cui bombardieri Tu-95, Tu-160 e Tu-22, sono stati distrutti o gravemente danneggiati in un’azione coordinata contro quattro basi aeree in territorio russo. Secondo fonti ucraine, i danni supererebbero i 7 miliardi di dollari e avrebbero compromesso il 34 per cento della capacità missilistica strategica di Mosca.

L’operazione, denominata “Spiderweb”, ragnatela, è il frutto di un lavoro di infiltrazione durato oltre un anno e mezzo. Il dettaglio forse più significativo è che il centro operativo si trovava in Russia, sorprendentemente vicino a un ufficio dell’Fsb: un segno tangibile della penetrazione ormai profonda delle reti clandestine ucraine. Molti attribuiscono il successo dell’operazione al sostegno dei servizi occidentali, ma questa ipotesi rischia di sovrastimarne il ruolo. Non avremo mai una risposta certa sul grado di coinvolgimento esterno, ma un dato spesso trascurato è la presenza, sul territorio russo, di quasi due milioni di cittadini di origine ucraina: una rete umana potenzialmente preziosa per l’intelligence di Kyiv, cui si aggiungono numerosi cittadini russi reclutati direttamente dai servizi ucraini.

I bombardieri colpiti rappresentano un patrimonio strategico insostituibile per Mosca. Si tratta in gran parte di velivoli fuori produzione da decenni, la cui perdita va ben oltre il danno tattico: compromette la capacità della Russia di mantenere la propria postura nucleare e di proiezione globale, in particolare nello spazio eurasiatico. La vulnerabilità esibita in questa occasione ha un valore tanto operativo quanto simbolico, poiché mina il senso stesso di superiorità strategica che il Cremlino ha sempre cercato di proiettare.

Ma l’azione non si è limitata al danneggiamento fisico delle infrastrutture. In parallelo, i servizi di intelligence ucraini hanno portato a termine un’incursione cibernetica nei sistemi informatici della Tupolev, l’azienda che progetta e gestisce i principali bombardieri strategici russi. Sono stati trafugati 4,4 gigabyte di dati sensibili: documenti interni, informazioni sul personale, indirizzi privati, verbali di riunioni riservate. L’obiettivo era chiaro: colpire le competenze tecniche e il capitale umano necessari a mantenere operativa la flotta. E’ una strategia che punta non solo a distruggere i mezzi, ma a rendere difficile – se non impossibile – la loro rigenerazione.

Contemporaneamente, Kyiv ha colpito ancora una volta il ponte di Kerch, infrastruttura chiave che collega la Russia alla Crimea occupata. Anche questo attacco ha un valore altamente simbolico: è un promemoria della vulnerabilità delle linee logistiche russe e della determinazione ucraina a non riconoscere l’annessione della penisola. Tutto ciò avviene in un contesto in cui l’Ucraina dimostra una rapida evoluzione tattica e tecnologica. I droni utilizzati in queste operazioni, progettati e prodotti localmente, sono in grado di trasmettere immagini in diretta attraverso le reti mobili russe e impiegano sistemi di puntamento automatizzati. Le immagini diffuse da Kyiv, che documentano l’attacco, mostrano una capacità di penetrazione e targeting estremamente precisa, in aperta sfida alla presunta superiorità tecnologica russa.

Gli effetti dell’operazione non si sono tradotti immediatamente in un mutamento degli equilibri sul campo, ma hanno avuto conseguenze rilevanti e di lungo periodo. La Russia ha potuto impiegare solo sette bombardieri nelle settimane successive, a fronte di una flotta già ridotta. Gli aerei superstiti sono stati caricati “al massimo”, segno di uno sforzo per compensare la ridotta disponibilità, ma anche di un’accelerazione dell’usura delle piattaforme rimanenti. Questo indica una pressione logistica crescente e uno stress operativo che rischiano di compromettere ulteriormente la capacità russa di sostenere attacchi prolungati. Le modalità di impiego dei bombardieri sono mutate: da uno a tre missili per missione si è passati a cinque, un cambiamento che segnala una necessità di revisione tattica improvvisa, un adattamento forzato che mette in luce la vulnerabilità del sistema.

L’Ucraina ha colpito non solo le strutture militari, ma anche la fiducia e la routine strategica dell’aviazione russa. E’ un risultato di vasta portata, che testimonia la maturazione del pensiero militare ucraino. Come scrive Nataliya Gumenyuk sull’Atlantic, dal 2024 il paese ha dato vita a una  rivoluzione dottrinale. Circa il 40 per cento delle armi oggi utilizzate al fronte è prodotto internamente. Le aziende ucraine – oltre 150 – fabbricano fino a 100 mila droni al mese: strumenti che hanno trasformato radicalmente il modo di combattere. I droni guidano l’artiglieria, mappano i campi minati, effettuano ricognizioni in tempo reale, riforniscono le truppe. La loro diffusione ha modificato la natura stessa del conflitto: nessun veicolo blindato può avvicinarsi alla linea del fronte senza essere individuato e colpito, e la fanteria può avanzare solo laddove i droni non arrivano.

Tuttavia, nonostante l’efficacia crescente dell’industria bellica ucraina, la dipendenza dal supporto occidentale resta cruciale, soprattutto per quanto riguarda la difesa aerea. In particolare, l’approvvigionamento di missili per i sistemi Patriot – fondamentali per proteggere le città ucraine – è fortemente legato alla continuità del sostegno statunitense. E’ da sottolineare che, da quando Donald Trump ha dichiarato di voler risolvere il conflitto, gli attacchi russi con droni e missili sono raddoppiati durante la sua Amministrazione, colpendo dodici regioni del paese. L’equilibrio tra difesa e vulnerabilità resta dunque estremamente precario.

La Russia, dal canto suo, non dà alcun segno di voler rallentare la propria macchina bellica. Anzi, il Cremlino ha pianificato un consistente aumento delle spese militari: secondo il Financial Times, nel 2025 il bilancio della Difesa russa ammonterà a 172 miliardi di dollari, pari al 7,7 per cento del pil nazionale, con un incremento del 12 per cento rispetto all’anno precedente. Si tratta della cifra più alta dal crollo dell’Unione sovietica. Il piano fiscale triennale approvato da Mosca prevede investimenti militari continui, in aperta contraddizione con lo stato dell’economia e il progressivo peggioramento del tenore di vita della popolazione. Questa settimana, Putin ha chiesto al governo un aumento urgente della produzione di armamenti e ha annunciato piani per la mobilitazione dell’economia. Ha sottolineato la necessità di adeguare l’intero comparto economico alle esigenze della guerra in corso. Durante una riunione dedicata alla pianificazione del nuovo programma statale per gli armamenti (2027-2036), il presidente russo ha dichiarato che la Russia deve non solo rispondere alle necessità attuali, ma anche prepararsi a lungo termine, sfruttando l’esperienza maturata nell’“operazione militare speciale” e nei conflitti regionali. La priorità resta la guerra, a qualunque costo.

Questo orientamento è coerente con l’atteggiamento mostrato finora da Vladimir Putin nei confronti di qualsiasi proposta negoziale. Anche di fronte a offerte che includono concessioni significative – il mantenimento dei territori occupati, una promessa da parte degli Stati Uniti di non ingresso dell’Ucraina nella Nato, l’attenuazione delle sanzioni – il presidente russo ha sistematicamente rifiutato ogni apertura. Chiede che si negozi sulle “cause profonde” del conflitto e vuole imporre limiti permanenti all’indipendenza politica e militare di Kyiv, cercando di ottenere al tavolo ciò che non ha ottenuto sul campo: la cessione da parte dell’Ucraina di territori che Mosca non è riuscita a conquistare militarmente. La strategia negoziale russa resta così immutata: pretese massimaliste e irrealistiche, accuse sistematiche all’interlocutore di sabotare il dialogo, e la tendenza a interpretare ogni concessione come segno di debolezza.

Eppure, l’Ucraina ha dimostrato una sorprendente capacità di resistenza, anche in assenza di un flusso costante di aiuti esterni. Secondo i sondaggi più recenti, il 60 per cento degli ucraini è disposto a sopportare a lungo le sofferenze della guerra, mentre l’82 per cento dei cittadini ucraini di lingua russa rifiuta ormai qualsiasi legame con la Russia. La combinazione tra forza di volontà per difendere la libertà, innovazione, produzione interna e flessibilità operativa ha permesso a Kyiv di superare momenti critici, quando le munizioni fornite dagli alleati erano scarse o incompatibili. La guerra si avvia sempre più verso un conflitto prolungato. In questo scenario, diventa cruciale aumentare il costo strategico per Mosca. L’unica via realistica è quella della massima pressione: colpire in modo efficace le finanze del Cremlino, strangolando l’economia russa con sanzioni, dazi e misure mirate, incluso un controllo più aggressivo sul prezzo del petrolio. Negli Stati Uniti, un nuovo disegno di legge sostenuto dalla maggioranza del Senato prevede dazi fino al 500 per cento su gas, petrolio, uranio e altre materie prime russe. Anche se la percentuale finale verrà probabilmente ridotta, il messaggio politico e finanziario è chiaro: rendere insostenibile la prosecuzione della guerra. Ma non è detto che il Congresso decida di votare la legge, considerata la contrarietà di Trump ad affrontare seriamente il “problema Russia”.

Parallelamente, l’Europa è chiamata ad assumersi le proprie responsabilità. Ciò significa aumentare la spesa per la difesa, rafforzare la deterrenza collettiva della Nato e del suo pilastro europeo, superare le divisioni interne e liberarsi definitivamente dalla dipendenza energetica dalla Russia. La proposta della Lettonia, articolata in tre pilastri – potenziamento della difesa della Nato, indebolimento dell’apparato bellico russo e sostegno totale all’Ucraina – rappresenta un punto di partenza. Il primo passo deve essere un’intensificazione della guerra finanziaria. Le illusioni di un ritorno alla normalità nei rapporti con Mosca devono essere abbandonate: Putin non si fermerà da solo e il piano degli armamenti 2027-2036 non mira certo solo alla sconfitta dell’Ucraina. Le ambizioni del Cremlino vanno oltre la sottomissione di Kyiv, anche perché ormai Putin non può fermare una guerra che è percepita come l’unico strumento per mantenere il potere. E allora qualcuno dovrà fermarlo. E quel qualcuno, oggi, non può che essere l’Europa.

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