Un'America irriconoscibile

La parata militare di Trump

Paola Peduzzi

Il presidente dice che i conflitti in corso non sono un problema suo, ma mette l’Amministrazione in assetto di guerra in America. Le truppe a Los Angeles e quelle a Washington, per la (sua) festa del 14 giugno

Donald Trump ha dispiegato sulla costa est dell’America, in California, quattromila truppe della Guardia nazionale e settecento marine – più soldati americani di quanti ce ne siano attualmente in Siria e Iraq, scrive l’Abc – e sabato, in occasione del 250esimo anniversario della creazione dell’esercito americano, e del 79esimo compleanno del presidente degli Stati Uniti, ci saranno nella parata settemila soldati, secondo la stima del sito Axios, oltre ai mezzi militari. “Le scene a Los Angeles e Washington – scrive Politico – sottolineano come Trump stia sfruttando il suo ruolo di commander in chief, incarnando l’immagine di un  comandante militare forte, la stessa che ha ammirato a lungo in altri leader stranieri, alleati e avversari”. 

Il commander in chief Trump ripete sempre che le guerre in corso non sono un affare suo, se le è ritrovate, perché il suo predecessore, Joe Biden, era scarso, non era riuscito a evitare i conflitti né poi a gestirli, mentre lui sì che sa come si mette fine alle guerre e si riporta la pace. In realtà sta avvenendo il contrario: la situazione in Ucraina è peggiorata, gli attacchi russi sono molto più frequenti e intensi rispetto a gennaio, quando Trump si è insediato alla Casa Bianca, e la capitale, Kyiv, è tornata a essere un bersaglio privilegiato del terrore di Vladimir Putin. Il negoziato di cui tutti parlano è un’illusione, oggi scadono i 14 giorni che Trump si era dato per attendere un gesto di buona volontà da parte della Russia, e quindi dovrebbero entrare in vigore le sanzioni promesse, ma nel frattempo la legge in discussione al Senato non ha fatto passi in avanti – anche se ha una grande maggioranza bipartisan – per esplicita richiesta di Trump che va di fretta con la pace a tutti i costi ignorando l’escalation russa nel fare la guerra. Sul versante mediorientale – dove è in corso l’altra guerra  – non ci sono stati miglioramenti, non si sa  se Trump voglia parlare più con l’alleato storico, Israele, o con il nemico di sempre, l’Iran, ma in ogni caso non sembra efficace, in termini pratici, con nessuno dei due. 

In compenso Trump ha messo in piedi la sua guerra. E’ una guerra commerciale, una guerra agli immigrati, agli studenti stranieri, alle università, ai media tradizionali, alla sinistra, agli alleati internazionali. L’Amministrazione è in assetto di guerra, non soltanto dal punto vista retorico – di cui il termine “invasione” è il cuore – ma strutturale, come dimostra la trasformazione dell’Ice, l’agenzia che si occupa dell’immigrazione. Ora tutto il sistema, dal dipartimento di stato al ministero del Tesoro, passando da quello della Sicurezza nazionale e della Giustizia, fornisce informazioni e dettagli all’Ice per portare avanti i suoi blitz contro gli immigrati irregolari (che talvolta irregolari non sono, ma gli errori non vengono  ammessi). Un agente dell’Ice, a volto coperto come moltissimi di loro perché subiscono minacce, ha detto al New York Times che la condivisione di informazioni da parte dei ministeri ha cambiato tutto, e che è funzionale all’obiettivo da raggiungere – perché questo è il punto: c’è un obiettivo numerico – che è quello di milleseicento arresti ogni giorno. Le proteste a Los Angeles sono nate proprio contro questa pesca a strascico dell’Ice, ma poi l’assetto di guerra dell’Amministrazione si è riversato anche su di esse:  notizie false, immagini di altre proteste del passato pubblicate come se fossero di adesso, lo svilimento delle autorità che dovrebbero gestire la situazione – quelle californiane – e l’invio, senza richiesta da parte della California, della Guardia nazionale e dei marine. Così si è creato il contesto perfetto per la guerra di Trump, il sito Free Press lo definisce “uno spot pubblicitario” per il governo, perché è vero che nelle proteste contro l’Ice ci sono degli elementi violenti, è vero che ci sono quelli che lanciano le pietre e incendiano le auto, ed è vero che i democratici sbagliano quando lo negano, ma è altrettanto vero che le azioni del governo invece che contribuire a calmare la situazione hanno diffuso l’incendio. Questo è il mandato, questo è l’assetto, questa è la distorsione imposta al sistema nel suo complesso.

E ora arrivano anche i carri armati. Sfileranno in una parata che si tiene ogni anno, quella dell’esercito americano, ma che solitamente si tiene al Museo nazionale dell’esercito, oltre il  Potomac. La settimana dopo il suo insediamento, Trump ha firmato un ordine esecutivo, il Task Force 250, per pianificare l’evento che costa, secondo le fonti dello stesso Pentagono, 45 milioni di dollari e che prevede migliaia di truppe in parata su Constitution Avenue, nella parte nord del National Mall, con le uniformi delle varie guerre fatte dall’esercito americano, a partire dalla Rivoluzione del 1775, e con i mezzi dell’esercito, gli Abrams, i Black Hawk, i Bradley, i Chinook. Come si sa, è dal 2017, quando Trump al suo primo mandato andò a Parigi per il 14 luglio, che il presidente sogna una parata come quella francese. Secondo il libro “Holding the Line” di Guy Snodgrass, un collaboratore dell’ex ministro della Difesa Jim Mattis, Trump aveva cercato già allora di organizzare una parata simile, ma Mattis gli aveva risposto che si rischiava di evocare un po’ troppo le parate sovietiche, e poi privatamente (ma Mattis si è arrabbiato con il suo collaboratore che lo ha citato) aveva detto: “Piuttosto mi bevo dell’acido”. Oggi invece la parata c’è, l’Amministrazione in assetto da guerra non si sogna di contraddire il capo, Trump ha già detto che se dovessero esserci degli “insurrezionisti” verranno puniti con grande forza. 
 Le proteste dilagano in tutto il paese, per sabato ne sono previste centinaia, anche a Washington. Lo slogan è “No Kings”, che in un paese che non ha mai visto una monarchia suona come uno spavento, uno sparo, una rivoluzione. 
 

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi