
il colloquio
“Parlare bene della Cina” è diventato sempre più complicato. La versione di Emily Feng
La corrispondente da Pechino per la National Public Radio americana racconta le difficoltà di vivere e lavorare in Cina come giornalista: "Ottenere un visto è la sfida più grande"
Emily Feng è stata a lungo corrispondente da Pechino per il Financial Times e poi, dal 2019, per la National Public Radio americana. E’ quello il periodo in cui ha iniziato a riflettere sul suo lavoro, sulla sua identità, ogni volta che trascorreva ore nella stanza degli interrogatori della dogana all’aeroporto di Pechino. E’ una relazione complicata, quella della Repubblica popolare cinese con i giornalisti stranieri, che abbiamo testimoniato spesso su queste colonne: “Se sei un giornalista impiegato di una testata americana”, dice al Foglio Feng, “la sfida più grande è ottenere un visto da giornalista residente per la Cina. Pechino sta concedendo visti giornalistici a breve termine per le testate americane, che di solito durano due o tre settimane e richiedono la presentazione anticipata di un elenco di storie da trattare, ma non stanno più concedendo facilmente permessi per vivere e lavorare in Cina come giornalista”. Se i reporter internazionali non possono più essere in Cina è un problema: “Sento di perdere tantissimo del contesto”, dice Feng. Dal paese esce molta informazione, ma “la Cina ha le sue agenzie di stampa, servizi di database, un insieme di media interni, e un mondo social rumorosissimo. Eppure abbiamo sempre meno possibilità di dare un senso a tutte queste informazioni, e di distinguere cosa è vero e cosa no”. In Italia e in Europa il racconto sulla Cina è ancora molto impregnato di esotismo, oppure di fascinazione estrema, senza una vera analisi oggettiva: “Parte di questa inaccessibilità”, dice Feng, “deriva dalla difficoltà che giornalisti e accademici affrontano nel cercare di studiare la Cina a lungo termine, e che si ritrovano a superare, spesso inconsapevolmente, linee rosse prima ignote e vengono poi banditi dal lavorare nel paese. La Cina si sabota anche nel tentativo di raccontare al mondo la ‘storia della Cina’, perché ci perde quando cerca di sopprimere altre narrazioni che si discostano dalla linea ufficiale, eliminando di fatto la diversità che esiste nel paese, e che ho cercato in parte di rappresentare nel libro”.
Ma la priorità ce l’ha la politica: “Gran parte della narrazione cinese, anche prima della prima Amministrazione Trump, era che Pechino fosse un partner più affidabile e stabile con cui collaborare. Ora deve fare ben poco perché siano gli stessi Stati Uniti a dimostrare di essere un partner inaffidabile. All’inizio, Pechino aveva dato segnali di voler dialogare con gli Stati Uniti nei modi a cui era abituata per affrontare questioni spinose, ma da tutti i resoconti risulta disorientata dalla mancanza di protocollo da parte dei funzionari americani. I segnali sottili che la Cina è abituata a inviare non vengono colti a Washington, e il suo sistema politico, rigido e avverso al rischio, non è in grado di adattarsi abbastanza in fretta per affrontare direttamente un’Amministrazione Trump sempre più esagerata”.


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