L'anniversario del 4 giugno

Gli orrori cancellati della Cina

Giulia Pompili

La leadership cinese è riuscita a rimuovere dal dibattito pubblico anche occidentale l’anniversario di Piazza Tiananmen, ma anche il Tibet, Hong Kong. Ora nessuno parla più dello Xinjiang, una meta turistica

 La riscrittura della storia è una priorità della leadership cinese di Xi Jinping, che ha imparato dall’Unione sovietica prima e dalla Russia di Vladimir Putin poi come manipolare la narrazione dell’opinione pubblica internazionale con messaggi alternativi e martellanti. Lo vediamo, per esempio, con la cancellazione delle commemorazioni del massacro di Piazza Tiananmen, avvenuto il 4 giugno di trentasei anni fa, al culmine di una serie di proteste per la democrazia e l’apertura della Repubblica popolare.  Prima a Hong Kong, e poi nel resto del mondo la brutale repressione da parte dell’Esercito popolare di liberazione cinese delle proteste pacifiche è sempre meno ricordata. Ma lo stesso metodo è applicato anche ad altri temi sensibili per la leadership del Partito comunista cinese. Sono passati soltanto quattro anni da quando il governo americano definì per la prima volta un “genocidio” quello che Pechino stava compiendo ai danni della minoranza musulmana degli uiguri nella regione autonoma cinese dello Xinjiang. Poco dopo fecero lo stesso il Parlamento del Regno Unito, l’Assemblea nazionale francese, e l’Unione europea, che impose sanzioni contro quattro funzionari considerati responsabili del programma di repressione.

 

Per quella mossa, che di fatto aveva reso tutte le esportazioni dalla regione dello Xinjiang a rischio di lavoro forzato e violazione dei diritti umani, Pechino rispose sanzionando dieci europei, tra cui diversi parlamentari europei accusati di “diffondere cattiva informazione”, delle misure che Pechino ha deciso di togliere soltanto a fine aprile, per favorire le relazioni fra l’Ue e la Cina. Solo che oggi, a distanza di pochi anni, di quella battaglia per i diritti umani non si parla più. E la narrazione cinese sta vincendo: lo Xinjiang è un posto turistico, venite a visitarlo, altro che lavori forzati e campi di concentramento e di rieducazione.  Ma è un’operazione di facciata. Un’inchiesta del New York Times e dello Spiegel pubblicata la settimana scorsa racconta il modo in cui la leadership di Xi Jinping è riuscita a trasformare lo Xinjiang in una zona turistica e allo stesso tempo ad assicurarsi di continuare ad avere manodopera uigura a costo zero: “La Cina ha collocato gli uiguri in fabbriche sparse in tutto il paese, dove producono una vasta gamma di beni utilizzati in prodotti di marca venduti in tutto il mondo. E lo ha fatto con pochissima – se non nessuna – trasparenza nei confronti degli ispettori della filiera o delle autorità doganali, incaricati di individuare abusi sul lavoro e bloccare le importazioni di merci provenienti dal lavoro forzato”. Secondo l’indagine, che si basa su decine di fonti aperte, post sui social media e documenti ufficiali statali, decine di migliaia di uiguri sarebbero impiegati in questi programmi in cui le condizioni di lavoro sono poco chiare, ma che gli esperti definiscono come coercitivi. E’ un sistema di ingegneria sociale ben rodato dal Partito comunista cinese. Un rapporto della ong spagnola Safeguard defenders pubblicato oggi documenta i regolari viaggi forzati imposti a personalità sensibili (come difensori dei diritti umani o dissidenti) sotto scorta della polizia o di funzionari governativi con il pretesto di “andare in vacanza” durante periodi politicamente sensibili. Sono stati documentati 84 casi di “vacanze forzate” tra il 2018 e marzo 2025 su tutto il territorio cinese, e soprattutto a ridosso di eventi politici a Pechino o durante anniversari come quello di oggi. 

 


Per un uiguro nello Xinjiang la situazione è anche peggio. Con la scusa di rivitalizzare l’economia della regione la leadership di Xi punta sul turismo anche internazionale – anche se alcune zone sono ancora off limits al turismo. Secondo il South China Morning Post 5 milioni di visitatori stranieri hanno visitato lo Xinjiang nel 2024, con un aumento del 46 per cento su base annua. Secondo gli osservatori, il turismo serve come maquillage, a nascondere gli uiguri e assimilare la regione, e compensare l’economia piegata dalle sanzioni occidentali. Ma la propaganda punta su altro: qualche giorno fa sul FarodiRoma, media online più volte indicato da diverse analisi come una delle principali fonti di disinformazione in italiano, si leggeva che “alcuni paesi occidentali hanno diffuso ripetutamente narrative false per denigrare la regione dello Xinjiang”, ma che adesso, con “l’esplosione del fenomeno China Travel sulle piattaforme social globali, lo Xinjiang si è affermato come meta privilegiata per turisti internazionali”. A giudicare da quanto la repressione dei diritti umani in Cina è ancora presente nel discorso pubblico occidentale, sembra che la narrazione cinese stia vincendo. Quest’estate, tutti in vacanza nei campi di cotone. 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.