Aleksandar Vucic, presidente della Serbia (foto ANSA)

crisi tra Pristina e Belgrado

Pure in Kosovo si sente l'effetto del disimpegno trumpiano

Antonio Pellegrino

Le ultime iniziative diplomatiche di Washington mettono in discussione il futuro della regione, ma è solo l’ultimo ostacolo al raggiungimento di una vera pace: scopo al quale l’Europa non può rinunciare

Pristina. Il Kosovo è spesso ignorato dai media, ma i continui sviluppi della crisi tra Pristina e Belgrado, l’intervento costante dell’Unione europea per raggiungere un accordo tra le due parti e il ruolo non trascurabile dell’Italia nella regione sono i motivi per i quali è necessario monitorare la situazione. L’Europa si trova a dover fare da arbitro tra la Serbia, che si rifiuta di riconoscere il Kosovo come nazione – minacciandone, in maniera non troppo velata, l’invasione – e l’esecutivo kosovaro che, ricorrendo ad azioni unilaterali, fa di tutto per penalizzare la minoranza serba.

 

            

 

Questa, però, è solo una sintesi del problema: la guerra del ’98-’99 non è mai finita. La capitale e le altre città a maggioranza albanese sono tappezzate con  i colori dell’Ushtria Çlirimtare e Kosovës, l’Esercito di liberazione del Kosovo protagonista della lotta alle truppe serbe di Slobodan Milosevic. Le bandiere del gruppo paramilitare vengono esposte indistintamente sui palazzi istituzionali e sulle case, il suo simbolo viene sfruttato dal governo di Pristina per compattare gli elettori e rincarare la retorica dello scontro etnico contro la minoranza che guarda a Belgrado. Dall’altra parte del fronte, trincerati nelle municipalità del nord, i serbo-kosovari ribadiscono la propria presenza nel paese con frequenti manifestazioni nazionaliste (appoggiate dal presidente serbo Aleksandar Vucic) che spesso si spingono al confine con i comuni albanesi, degenerando in scontri con le autorità locali e con la popolazione albanese. L’ordine è garantito dalle forze Nato della missione Kosovo Force (Kfor), attualmente guidata dal generale Enrico Barduani. Il contingente italiano, con oltre milleduecento unità, è il nucleo più numeroso di Kfor ed è per questo che a Roma questa è una questione prioritaria

La situazione, già delicata, è peggiorata nei mesi scorsi quando il governo del primo ministro uscente, Albin Kurti, ha decretato la chiusura delle strutture parallele serbe, centri che si occupano di garantire i servizi essenziali (dal pagamento delle pensioni all’assistenza sanitaria) per la minoranza serbo-kosovara. La decisione è stata stigmatizzata dall’Unione europea e dall’Alleanza atlantica, ma per Kurti queste strutture rappresenterebbero delle enclave politiche di Belgrado, avamposti funzionali ad una futura invasione.

D’altro canto, Vucic ha sfruttato la chiusura di queste strutture per rilanciarsi attraverso una propaganda irredentista che, nei suoi piani, dovrebbe tamponare il profondo calo di consensi tra i cittadini serbi. Lo scontro tra i due governi e l’identitarismo esasperato di entrambi i gruppi etnici contribuisce all’instabilità di un territorio dove l’apparente tranquillità della vita quotidiana sembra negare la possibilità di un nuovo conflitto armato – “Una situazione relativamente calma ma estremamente fragile”, è la valutazione di Barduani – ma il mantenimento dello status quo non è scontato. Per l’analista politico Miodrag Marinkovic, l’ipotesi di un’invasione serba non è altro che una mossa propagandistica sfruttata dalle due parti per i rispettivi interessi: “Vucicć parla di invasione per accontentare il suo elettorato ultranazionalista e filorusso, mentre Pristina sfrutta questi proclami per giustificare il massiccio dispiegamento di poliziotti nel nord”. La presenza della Nato rende impossibile, almeno al momento, questa ipotesi.

Il vero pericolo è rappresentato, invece, dall’abbandono del processo di normalizzazione dei rapporti in favore di una spartizione territoriale, idea caldeggiata da Donald Trump. Le ultime iniziative diplomatiche di Washington mettono in discussione il futuro del Kosovo: da un possibile disimpegno statunitense nella regione – voci smentite da Barduani che però sottolinea come in caso di una “riduzione del contingente statunitense, l’Alleanza avrebbe le capacità e la motivazione per andare immediatamente a sostituire questa eventuale carenza” – a una presa di posizione in favore di una delle due parti in causa (la portavoce del Pentagono Kingsley Wilson ha riassunto la posizione del mondo Maga dichiarando “Let’s make Kosovo Serbia again”). Ma l’incognita Trump è solo l’ultimo ostacolo al raggiungimento di una vera pace in Kosovo, un obbiettivo al quale l’Europa non può rinunciare.