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rischio guerra civile

Dopo gli scontri a Tripoli in fuga gli italiani (e alcuni di Eni)

Luca Gambardella

Il premier libico Abudlhamid Dabaiba è scappato a Misurata per mettersi al sicuro. Un centinaio di italiani è riuscito ad abbandonare il paese. Il pericolo di un conflitto armato è concreto

Il “Nerone di Tripoli”, come qualcuno in Libia ha ribattezzato il premier libico Abudlhamid Dabaiba, è scappato a Misurata per mettersi al sicuro. Troppi i rischi restando nella capitale, visto che nella notte fra mercoledì e giovedì migliaia di persone erano scese in strada, davanti alla sua residenza, chiedendogli di lasciare il potere. Spari, auto e blindati incendiati, le forze della brigata 444 di Mahmoud Hamza hanno aperto il fuoco contro i manifestanti. Nel frattempo, centinaia di stranieri, molti dei quali europei, erano rinchiusi nei loro alberghi. Oggi un centinaio di italiani è riuscito ad abbandonare il paese raggiungendo l’aeroporto di Misurata e con un volo di linea messo a disposizione dal nostro ministero degli Esteri. Tra questi anche diversi impiegati di Eni, che resta operativa ma ha avviato “una razionalizzazione delle presenze in via precauzionale”, ha fatto sapere l’azienda.

 

Proprio in questi giorni in cui il paese rischia una nuova guerra civile, era in corso a Tripoli uno degli eventi più attesi che – ironia della sorte – si intitolava “Libya Build 2025”, costruire la Libia, che attirava imprese internazionali nel settore delle infrastrutture. Mai come in queste ore, invece, il paese rischia di accumulare macerie. I pericoli di un conflitto armato nel cuore di Tripoli è concreto, sebbene da lì ci si affanni a tranquillizzare. “E’ tutto a posto, hanno trovato un accordo. E’ finita”, assicurano fonti vicine al governo di Dabaiba. Ma basta volgere lo sguardo fuori dalla capitale per capire che la tregua potrebbe rivelarsi più precaria di quanto non si voglia credere. 

 

A Kikla, un villaggio vicino alle montagne Nafusa, centocinquanta chilometri a sud-ovest di Tripoli, migliaia di persone si sono riunite per i funerali di Abdel Ghani al Kikli, alias “Ghnewa”. Il suo assassinio da parte degli uomini di Dabaiba ha innescato la violenza di questi giorni e i suoi sodali, al termine della cerimonia funebre, hanno letto un breve discorso che diceva: “Vogliamo la caduta del regime”. A Zawiya e Zintan risuonano minacce simili e molti osservatori ricordano che queste città sono il Cavallo di Troia di Khalifa Haftar in Tripolitania, per provare a entrare un domani nella capitale libica. Nel frattempo, mentre è a Mosca per incontrare gli alleati russi, il generale della Cirenaica fa convergere uomini e mezzi a Sirte e minaccia di muovere verso ovest. 

 

A Tripoli l’equilibrio raggiunto è delicato e le mediazioni hanno portato a un’intesa di base: il quartiere che era di Ghnewa e conquistato dalle brigate filogovernative, quello di Abu Salim, dovrebbe restare nelle mani di Dabaiba, mentre l’area di Suq al Jumaa, quella dell’aeroporto di Mitiga che il premier voleva conquistare, resterà sotto il controllo della milizia Rada. E’ necessario però usare il condizionale, perché la situazione è fluida e i residenti di Abu Salim non sono ben disposti nei confronti del capo del governo, considerato un assassino per le modalità da gangster con cui ha fatto fuori il rivale Ghnewa tre giorni fa. Dalla Farnesina si conferma che le trattative fra Dabaiba e la Rada continuano, anche grazie agli sforzi diplomatici italiani. Il premier dovrà abbandonare le sue aspirazioni. Nella migliore delle ipotesi non riuscirà a prendere il controllo dell’aeroporto, mentre nella peggiore sarà costretto a lasciare il paese da sconfitto.

 

Gli uomini della Rada, costretti a combattere per difendere l’aeroporto dall’avanzata delle brigate filogovernative, sono stati costretti a ridurre i ranghi tra chi sorvegliava il carcere di Mitiga e nella notte decine di detenuti sono evasi. Si parla di migranti, ma forse anche di ex combattenti dello Stato islamico.   

 

Oggi, sibillino, è intervenuto anche l’inviato speciale per la Libia in medio oriente, Steve Witkoff. “Gli Stati Uniti stanno per conseguire un successo in Libia, ve ne accorgerete rapidamente”. Ma l’ultima volta che Donald Trump aveva fatto appello alla rapidità era stato nel 2019, quando diede la sua benedizione all’avanzata di Haftar verso Tripoli, purché in tempi stretti. Fu un fallimento e la Libia rimase divisa, come lo è oggi, fra bande criminali. Lo ha ricordato anche il procuratore generale della Corte penale internazionale, Karim Khan, intervenuto oggi davanti al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Khan ha detto di essere “rimasto deluso” dalla decisione dell’Italia di non arrestare Osama Njeem Almasri, il capo della Polizia giudiziaria libica fermato a Torino lo scorso gennaio ma rimandato in Libia nonostante un mandato di arresto della dell’Aia. Poi il procuratore ha annunciato che il governo libico si è appena reso disponibile a collaborare con la Corte per i crimini commessi nel paese dal 2019 al 2027, anche se la Libia non ha aderito allo Statuto di Roma. In base a questa disponibilità, Khan ha chiesto a Tripoli di arrestare il capo della Polizia giudiziaria. I capi delle bande criminali libiche, Almasri incluso, non devono averla presa bene. 
 

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  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.