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il racconto
Come nasce una guerra civile. Il caso americano, ieri e oggi
Nel suo saggio, Erik Larson racconta l’America sospesa tra l’elezione di Lincoln e l’inizio della guerra civile, quando un conflitto sembrava impossibile e invece divenne inevitabile. Un affresco vivido di un paese diviso, ieri come oggi
C’è da sempre una violenza sotterranea in America che assomiglia a un vulcano in fase di riposo, pronto a tornare a eruttare all’improvviso. C’è una lava che ribolle impetuosa sotto la superficie e della quale normalmente ci si dimentica, perché la bocca del vulcano sembra quieta. E’ un magma con cui non si dovrebbe scherzare, perché già una volta nei 250 anni di storia degli Stati Uniti ha dimostrato di essere devastante e irrefrenabile. Fu quella volta che il paese entrò in guerra con sé stesso, pensando che si sarebbe trattato di un rapido duello tra gentiluomini, destinato a concludersi in fretta e con poche vittime. Invece fu una carneficina, una guerra civile di quattro anni che provocò 750 mila morti, devastò una nazione ancora giovane e la segnò per sempre. Se si pensa a quel conflitto del 1861-1865 tra il Nord e il Sud, tra unionisti e confederati, tra yankees degli stati industriali e secessionisti delle piantagioni, di solito vengono in mente i grandi scontri tra giacche blu e giacche grigie, un assaggio dei massacri che il mondo intero avrebbe sperimentato nelle due guerre mondiali. I campi di battaglia di quel conflitto, da Antietam a Gettysburg, in effetti furono terrificanti, ogni volta cosparsi da decine di migliaia di cadaveri. Ma tutto era cominciato con premesse assai diverse, quasi come un guanto di sfida lanciato da politici che si comportavano come nobili di un’altra epoca, nell’illusione che la questione si potesse risolvere con qualche colpo di cannone, per poi tornare al tavolo delle trattative. Non doveva essere una vera e propria guerra e neppure una rivoluzione, l’idea era quella di alzare la voce per far capire alla controparte che doveva cedere. E invece tutto scappò di mano, perché la violenza scatenata dai politici scoperchiò il vulcano.
Erik Larson ricostruisce i mesi che precedettero il conflitto nel saggio “Il demone dell’inquietudine. L’alba della guerra civile americana”
Fa una certa impressione leggere la nuova ricostruzione dei mesi che precedettero il conflitto fatta nel saggio di Erik Larson Il demone dell’inquietudine. L’alba della guerra civile americana, appena pubblicato in Italia da Neri Pozza. Larson non è uno storico che viene dal mondo accademico, bensì un narratore di eventi storici con un rigoroso approccio alle fonti, che riesce a restituire un racconto quasi giornalistico del passato. Stavolta si è cimentato nella ricostruzione di tutto quello che avvenne negli Stati Uniti nel breve arco di tempo tra l’elezione di Abraham Lincoln, nel novembre del 1860, il suo insediamento a Washington nel marzo successivo e lo scoppio della guerra ad aprile del 1861. Per farlo, Larson si è immerso negli articoli dei giornali dell’epoca, nelle lettere e nei diari dei protagonisti e di vari personaggi secondari, ricostruendo con cura il clima di quei giorni.
Gli Stati Uniti di oggi sono alle prese con scontri culturali, tra Maga e woke, che spaccano il paese in modo altrettanto pericoloso
Ne emerge il quadro di un’America divisa e incattivita da una culture war non molto diversa da quella attuale, che finisce per scappare di mano a tutti fino a diventare guerra vera. Un monito del passato che suona sinistro e inquietante per gli Stati Uniti di oggi, alle prese con gli scontri culturali tra Maga e woke e con una polarizzazione che, se non divide il paese in senso geografico – Nord contro Sud, come nel diciannovesimo secolo – sicuramente lo sta spaccando in due lungo faglie culturali non meno pericolose di quelle che portarono alla guerra civile. Mentre si avvicinano le celebrazioni per i 250 anni di storia degli Stati Uniti, in programma per il 2026, gli echi di quella divisione di un secolo e mezzo fa non sembrano essersi ancora spenti del tutto.Certo, l’enorme differenza tra oggi e allora sta tutta nella ragione principale per la quale si scontrarono l’Unione e la Confederazione: la schiavitù. Gli scontri culturali odierni sulla diversità nelle università o sulle corsie preferenziali per le minoranze, non sono niente di paragonabile alla tragedia dei quattro milioni di schiavi neri che furono al centro del conflitto. La lezione che si può però ricavare da quel precedente è il rischio che si apre quando su un tema si raggiunge una totale incomunicabilità tra le parti, senza spazi per il compromesso.
Larson ci conduce per mano nei due mondi, il Nord e il Sud, e nelle loro reazioni all’elezione di Lincoln, il 6 novembre 1860. Fu quello il momento in cui gli stati schiavisti ritennero di essere in pericolo e scelsero di lasciare l’Unione, pensando che l’avvocato dell’Illinois che si apprestava a trasferirsi alla Casa Bianca avrebbe abolito subito la schiavitù. I mesi tra le elezioni e l’insediamento a marzo furono una commedia degli equivoci, un gioco di retorica nel quale tutti scherzavano con il fuoco: i giornali di New York abolizionisti, i politici di Washington impegnati solo a fare gli interessi del loro distretto elettorale, l’inetto presidente James Buchanan, che se ne lavò pilatescamente le mani, non facendo nulla, in attesa di lasciare i guai a Lincoln. Buchanan è oggi considerato dagli storici il peggiore dei quarantacinque presidenti che si sono succeduti da George Washington a Donald Trump, ma è un primato che prima o poi qualcuno potrebbe strappargli.
Per i sudisti lo schiavismo era un’“istituzione peculiare”, non solo una necessità economica, ma una tradizione basata su teorie scientifiche
Il viaggio di Larson nelle lettere e nei diari dell’epoca ci porta dentro un mondo, quello della cosiddetta “Cavalleria” del Sud, che aveva costruito una propria aristocrazia fatta di riti, cerimonie, tradizioni e rapporti sociali interamente fondata sullo sfruttamento degli schiavi. Lo schiavismo, che i sudisti definivano una loro “istituzione peculiare” – un termine coniato dal vicepresidente degli Stati Uniti John Calhoun qualche anno prima del conflitto –, era una necessità economica per tenere in piedi il sistema produttivo delle piantagioni di cotone, ma nelle menti della classe dirigente del Sud era qualcosa di più. Una tradizione fondata su teorie scientifiche che oggi lasciano sconcertati, ma all’epoca erano date per scontate anche dagli esponenti più colti della Cavalleria pseudo-nobiliare delle piantagioni. Nei diari delle signore di Charleston, di Savannah o di Montgomery, dal South Carolina all’Alabama, gli “africani” sono descritti sempre come una razza inferiore destinata al servizio dei bianchi e felice e grata di esserlo. Non mancano espressioni di affetto nei confronti degli schiavi di casa, ma analoghe a quelle che oggi si potrebbero dedicare agli animali domestici.
Nel piccolo South Carolina, a Charleston, si decide di percorrere la strada del massacro. Ma lo si fa tra feste e ricevimenti, brindando con allegria
Per questo le richieste degli abolizionisti del Nord facevano ai sudisti l’effetto che oggi fanno le teorie dei terrapiattisti: era assolutamente inconcepibile, per l’alta borghesia terriera del Sud, anche solo immaginare che un nero potesse avere la stessa dignità o gli stessi diritti dei bianchi. E per questo tra loro aveva suscitato orrore e scalpore, qualche anno prima della guerra, l’uscita del libro La capanna dello zio Tom di Harriet Beecher Stowe, ritenuto una pura operazione di guerra culturale e ideologica, che diffondeva bugie e mirava a indebolire le loro amate tradizioni e il clima di serena convivenza che si respirava nelle piantagioni. La Stowe, vista dai palazzi dei ricchi di Charleston – che si affacciavano sul mercato degli schiavi in cui veniva smistata la “merce” trasportata dalle navi negriere – in fondo non era che una scrittrice woke, che voleva imporre le idee progressiste del Nord a una società gelosa delle proprie istituzioni peculiari.
Larson ricostruisce nel dettaglio i pensieri e le mosse di Lincoln in quei mesi decisivi in cui Buchanan faceva le valigie e nessuno, a Washington, era in grado di comandare. La capitale era a sua volta una città del Sud, in cui gli schiavisti ribollivano e minacciavano di assaltare il Capitol ancora in costruzione per impedire la ratifica dell’elezione di Lincoln – un altro parallelismo importante con l’attualità. La Virginia e il Maryland, i due stati in mezzo ai quali si trovava Washington, erano spaccati politicamente e minacciavano la secessione, che alla fine arriverà per il primo ma non per il secondo.
Ma è più a sud che si gioca la partita decisiva, in quei mesi che hanno segnato l’America. E’ nel piccolo South Carolina, e soprattutto a Charleston, che finisce per vincere il “demone dell’inquietudine”: si decide così di scegliere la strada del massacro che segnerà i quattro anni successivi. Ma lo si fa in piena incoscienza, tra feste e ricevimenti, brindando con allegria, rispettando codici d’onore e di cavalleria incomprensibili più a nord. E’ una società che vive studiando e praticando il Code duello, le regole settecentesche che stabiliscono le modalità con cui risolvere i dissidi nello scontro armato faccia a faccia. Si va alla guerra con la leggerezza con cui si andava ai balli, pensando che sarebbe stato poco più di un duello tra gentiluomini, in un clima che per molti versi ricorda quello del “Gattopardo” siciliano, ambientato negli stessi anni – lo sbarco dei Mille era avvenuto sei mesi prima dell’elezione di Lincoln. Il simbolo di questo precipitare di eventi è Fort Sumter, alle cui vicissitudini Larson dedica gran parte delle proprie ricerche storiche.
La baia di Charleston era militarmente strategica, oltre a essere importante come porto commerciale per l’importazione di schiavi e l’esportazione di cotone. Il governo federale statunitense la presidiava con una serie di forti, cioè basi militari disposte all’ingresso della baia affacciata sull’oceano Atlantico. Ce n’erano due sul lato occidentale, Fort Johnson e Cummings Point, e una sul lato orientale, Fort Moultrie. Ma la più importante sorgeva su un’isola proprio al centro della baia, sulla quale era stata costruita un’imponente fortificazione dotata di potenti cannoni: Fort Sumter. L’intero complesso di strutture federali alla fine del 1860 era sotto il comando del maggiore Robert Anderson, che dal 20 dicembre si trovò in una situazione estremamente complessa. Il South Carolina quel giorno dichiarò la secessione dall’Unione, approfittando del vuoto di potere del periodo tra l’elezione di Lincoln e il suo insediamento. Charleston diventava d’improvviso un nemico per Anderson, che nello stesso tempo non riceveva ordini chiari da Washington per colpa delle titubanze del presidente Buchanan. L’ufficiale decise di propria iniziativa una mossa che era militarmente la più logica, ma che creò una crisi politica enorme. Abbandonò le basi sui due lati della baia e si chiuse, con un’ottantina di uomini, dentro Fort Sumter, deciso a difendere fino all’ultimo soldato la bandiera dell’Unione che vi sventolava sopra.
Fu l’inizio di mesi di assedio, il caso Fort Sumter dominò le cronache e i dibattiti politici del momento e divenne una crisi per Lincoln, prima ancora che prendesse il potere. Ma il racconto di Larson svela come si sia trattato di una sfida dal sapore antico, una sorta di giostra medievale. Anderson era un uomo del Sud, per quanto fedele all’Unione, e per mesi i rapporti con gli assedianti di Charleston furono all’insegna della massima civiltà. Agli uomini chiusi dentro Fort Sumter veniva concesso di mandare lettere a Nord, garantendo la loro privacy, venivano offerti rifornimenti e veniva permesso di scendere sulla terraferma per trattative tra gentiluomini. Anderson divenne un personaggio cavalleresco per le dame di Charleston, che ne ammiravano il coraggio, mentre i militari secessionisti del Sud gli concessero onori e rispetto. Quando alla fine, nella notte tra il 12 e 13 aprile 1861, si decise che era arrivato il momento di attaccare Fort Sumter, le due parti si presero a cannonate per un paio di giorni fino alla resa di Anderson e dei suoi quando un incendio rese invivibile il forte. Non ci fu un solo morto nei combattimenti – due vittime furono causate da incidenti – e agli assediati di Fort Sumter fu concesso di ritirarsi con l’onore delle armi, portando via la bandiera, accompagnati da una serie di colpi di cannone esplosi a scopo cerimoniale.
Era l’inizio della guerra civile, erano le cannonate che presagivano la carneficina che stava per arrivare, ma sembrò a tutti che fosse solo la prosecuzione con altri mezzi dei litigi politici che avvenivano a Washington. Lincoln e pochi altri intuirono cosa stava per avvenire, mentre i giornali del Nord e del Sud incitavano allo scontro e decine di migliaia di giovani correvano ad arruolarsi carichi di entusiasmo. Quando Anderson il 14 aprile 1865 tornò a Fort Sumter con i gradi di generale, per issare di nuovo la bandiera a stelle e strisce dell’Unione, il fortino sull’isola era ormai un cumulo di macerie, così come l’intera Charleston. La schiavitù era finita, la guerra anche, il Sud si era arreso, sconvolto e distrutto. Sembrava una passeggiata, una guerra culturale per decidere chi avesse ragione senza farsi troppo male, come a Fort Sumter. Divenne un conflitto che spazzò via un’intera generazione.