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Governo del mare
Il Sea Power che serve per arginare l'economia predatoria di Pechino
Una nave incagliata e le strategie per riorganizzare l’Indo-Pacifico. La politica economica si estende in mare attraverso nuovi mezzi strategici, visti come il migliore deterrente ai piani cinesi
Il “Sierra Madre” è una “nuda carcassa di nave” come quella che appare nella “Ballata del vecchio marinaio”. Incagliata su un banco della barriera corallina nel Mar Cinese Meridionale, dopo quasi un secolo navigando nel Pacifico occidentale e nel Delta del Mekong, potrebbe anch’essa divenire foriera di sciagura. Quella vecchia nave, che ha servito nella marina americana, poi in quella della Repubblica del Vietnam, ora porta la sigla BRP (Barko ng Republika ng Pilipinas) e nel 1999 è stata fatta incagliare nel Second Thomas Shoal, un banco delle isole Spratly a meno di 200 miglia nautiche dall’isola filippina di Palawan. Era il modo per affermare la sovranità filippina su quelle acque, contrastando le rivendicazioni cinesi. Da allora la Guardia costiera cinese si è limitata a ostacolare i rifornimenti al Sierra Madre, ma negli ultimi mesi le azioni sono aumentate d’intensità. La nave e l’equipaggio attendono un attacco che potrebbe trasformarli in fantasmi. Segnando l’inizio della terza guerra mondiale.
Il Sierra Madre è già un topos della geopolitica marittima, là dove alcune coordinate marine generano vere e proprie correnti strategiche. E’ una visione che il professore di strategia navale James Holmes definisce “l’arte di governare marittima”, ossia “un metodo, un atteggiamento, una cultura”. Tutto ciò è indispensabile a decodificare la complessità del “Sea Power”, concetto che descrive le capacità di esercitare il controllo sul mare coi mezzi del potere navale, della scienza e dell’industria navale, del commercio marittimo.
“Dispatches from the South China Sea: Navigating to Common Ground” è uno dei testi che segnano il nuovo approccio allo studio del Sea Power. In questo saggio-reportage, James Borton, giornalista che da trent’anni opera nel sud-est asiatico, analizza la situazione nel Mar della Cina del sud da un punto di vista ecologico per raggiungere conclusioni politiche. La Cina vi appare una superpotenza peschereccia che raccoglie il 20 per cento dell’intero pescato mondiale con devastanti conseguenze sull’ecosistema. Secondo un rapporto del National Defense Strategy americano questa “economia predatoria” fa parte del piano di Pechino per “riorganizzare l’Indo-Pacifico”. Eppure, sostiene Borton, il Mar della Cina può divenire un mare che unisce anziché dividere. Con partnership scientifiche nei campi dell’oceanografia e dell’ecologia marina, gli Stati Uniti possono aumentare la loro influenza in Malaysia, Singapore e Vietnam. La partita decisiva potrebbe giocarsi nel Sud Pacifico: dove le popolazioni traggono la maggior fonte di sostentamento dalle risorse oceaniche, la protezione dell’ambiente marino assume valore strategico.
E’ una strategia analizzata in un altro saggio: “The Neptune Factor: Alfred Thayer Mahan and the Concept of Sea Power”. Lo storico Nicholas A. Lambert reinterpreta il pensiero di Alfred Thayer Mahan, il più importante stratega americano del Diciannovesimo secolo, tuttora studiato nell’accademia di Annapolis, affermando che lo stesso Mahan considerava l’economia come il fattore principale del Sea power, mentre il combattimento era solo un fattore secondario. Quasi all’inizio del libro Lambert afferma che “il ruolo della marina è soffocare il commercio del nemico, non tanto in battaglia quanto regolando il sistema di commercio internazionale”. In questa prospettiva, contrariamente al pensiero di molti strateghi, il Sea Power è “la continuazione dell’economia con altri mezzi”.
Almeno negli ultimi dieci anni, la lezione non è servita. E’ la tesi di due esperti di politica estera, Robert Blackwill e Richard Fontaine, in “Lost Decade: The US Pivot to Asia and the Rise of Chinese Power”. L’idea del pivot fu lanciata nel 2011 dall’allora segretario di stato Hillary Clinton nell’articolo “America's Pacific Century”. Ma l’America ha sottovalutato l’obiettivo strategico cinese di essere il No. 1 in Asia e ha disperso le proprie forze su troppi fronti. Anche in questo caso la soluzione è soprattutto economica: il miglior deterrente ai piani di Pechino sono accordi internazionali per un “Indo-Pacifico libero e aperto”. Bisognerebbe far rivivere l’idea di quella Trans-Pacific Partnership bloccata da Trump nel 2017. Il rischio è di perdere un’altra decade. E quindi il secolo.