la strategia

Ora Putin punisce chi non gli ha conquistato Kyiv

Micol Flammini

Gli arresti al ministero della Difesa, il ruolo dell'Fsb e le accuse che arrivano da Prigozhin. Il capo del Cremlino quando parla di negoziato vuole costringere l'Ucraina a capitolare, ma intanto prepara il paese alla guerra a qualsiasi costo

La regola del potere in Russia si basa sull’invisibilità. Tra coloro che siedono attorno al presidente, chi è in grado di influenzarlo di più  è chi rilascia meno dichiarazioni, chi non emerge, chi non si sporge, chi non urla. Dentro al ministero della Difesa di Mosca sta accadendo qualcosa di importante: un’epurazione a ritmo sostenuto che finora ha portato a incriminare cinque alti ufficiali e altri funzionari in un mese. Ed è soltanto l’inizio. Timur Ivanov è stato il primo a essere arrestato. L’ex viceministro della Difesa era conosciuto per uno stile di vita opulento, dissoluto, animato da triangoli amorosi, gli investigatori hanno detto che un’indagine su di lui andava avanti da cinque anni, ma nessuno se ne curava fino all’arrivo del quinto mandato di Vladimir Putin.  Ivanov è stato arrestato quando il ministero della Difesa era ancora guidato da Sergei Shoigu, ed è stato il primo segnale di un rimescolamento profondo, di un accerchiamento tutto attorno alla leadership della Difesa. Dopo Timur Ivanov è toccato a Juri Kuznetsov, capo del dipartimento del personale del ministero, poi al generale Ivan Popov, al viceministro Juri Sadovenko, al capo dipartimento delle comunicazioni dello stato maggiore Vadim Shamarin, infine Vladimir Verteletski, arrestato per abuso di potere. 


Sergei Shoigu non è più ministro, è stato messo a capo del Consiglio di sicurezza, un organo senza troppi poteri, diventato con il tempo il rifugio dei liquidati, dove è finito anche il l’ex primo ministro Dmitri Medvedev. Shoigu è stato sostituito con Andrei Belousov, un economista che ha il compito di mettere ordine nei conti del ministero. La scorsa settimana Putin si era fatto accompagnare a Pechino da tutti e due, ma ieri è arrivato in Bielorussia soltanto con il nuovo ministro – nel codazzo di accompagnamento c’era anche l’ex presidente ucraino Viktor Yanukovich. Il ministero della Difesa è il cuore del quinto mandato di Vladimir Putin e il primo ad accusare i suoi funzionari di corruzione era stato Evgeni Prigozhin, il capo delle milizie della Wagner che da Bakhmut mostrava i cadaveri dei suoi uomini, gridava a Shoigu e al capo di stato maggiore Valeri Gerasimov che erano due corrotti e che mentre i russi erano al fronte loro si godevano ville, donne e benessere. La contesa era sul fatto che il ministro non voleva mandare munizioni alla Wagner che, mentre l’esercito regolare non riusciva a portare a casa vittorie, stava invece ottenendo la cattura di Bakhmut, la città ucraina nella regione di Donetsk in cui un tempo si produceva vino frizzante e ora è un deserto abitato da macerie e fantasmi. Le parole di Prigozhin avevano un certo sostegno tra gli ambienti dei blogger militari russi e il supporto anche di alcuni generali, come Sergei Surovikin, soprannominato generale Armageddon per la mole di distruzione che le sue campagne erano in grado di portare, la più famosa è quella nella città siriana di Aleppo. Stufo di non essere ascoltato, Prigozhin aveva iniziato una marcia notturna  verso Rostov sul Don, la città da cui vengono coordinate molte delle operazioni contro l’Ucraina. Una volta arrivato con i suoi uomini nella base di Rostov aveva chiesto ancora una volta a Putin di licenziare Shoigu, non era stato ascoltato e si era messo in cammino verso Mosca, fermandosi a una manciata di chilometri di distanza, dopo ore di cammino, durante le quali Putin aveva parlato alla nazione per definirlo un traditore, prendendo le difese di Shoigu. La marcia di Prigozhin era stata guardata e seguita, nella base di Rostov sul Don sembrava che i soldati avessero accolto i mercenari e il loro capo con discreta simpatia. Prigozhin è stato ucciso un mese dopo la marcia, non perché al Cremlino credessero che non avesse ragione, ma perché il rumore era stato eccessivo. 


Nove mesi dopo la morte di Prigozhin, dopo l’ultima elezione e il quinto mandato di Putin, il piano di rifare il ministero e di mandare via i colpevoli dei fallimenti e chi aveva collaborato con Shoigu per i dodici anni in cui è stato al ministero della Difesa non è  affidato alla Wagner o a qualche capo mercenario ma a una cerchia di persone molto più vicina al presidente russo. Secondo giornalisti russi con fonti interne al Cremlino, è il servizio di sicurezza federale, l’Fsb, a dare la caccia a chi è ritenuto responsabile di una guerra che non procede,  è devastante ma lontana dai progetti del Cremlino che ambiva arrivare fino a Kyiv. Putin è stato il capo dell’Fsb, una fonte ha detto al Moscow Times: “Adesso nel ministero ci sono più chekisti che personale militare”, facendo riferimento alla polizia politica sovietica dei tempi di Stalin, ribattezzata  poi Kgb e dopo il crollo dell’Unione sovietica  Fsb. 


Ieri la Reuters ha pubblicato un’esclusiva in cui racconta che Putin è pronto a negoziare un cessate il fuoco con i confini che l’esercito ha catturato finora. Nulla di nuovo: è consapevole di non poter più prendere Kyiv per come la guerra era stata strutturata dall’inizio – e per questo sta punendo chi ritiene responsabile – ed è pronto a vincere la guerra costringendo Kyiv alla capitolazione. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)