Gli schiavi della Bomba di Kim Jong Un

Ecco da dove arrivano le armi che viaggiano da Pyongyang a Mosca

Giulia Pompili

Un nuovo studio racconta la vita di scienziati e ingegneri che contribuiscono al programma nucleare e missilistico della Corea del nord. Reclutati da bambini, non hanno scelta. Anche l'Italia ha aperto le porte agli studenti nordcoreani vittime di lavoro forzato

Gli scienziati di Kim Jong Un, gli uomini che da decenni contribuiscono al programma nucleare e missilistico della Corea del nord, sono vittime di lavoro forzato. E oggi sono  anche vittime secondarie  dell’accordo per la fornitura di artiglieria e armamenti al Cremlino, quello che garantisce alla Russia di  proseguire la sua guerra contro l’Ucraina, e al regime di Pyongyang di essere la sua fabbrica di munizioni. Secondo nuove ricerche l’intero programma di armamenti nordcoreano è costruito su violazioni sistematiche dei diritti umani, dall’estrazione dell’uranio ai test sulle armi. 

Per molto tempo si è creduto che nella gerarchia nordcoreana gli scienziati che lavorano ai programmi di Difesa avessero un ruolo di prestigio, e fossero parte di una élite da lusingare e proteggere. Un nuovo studio, che verrà pubblicato domani e che il Foglio ha potuto visionare in anteprima, svela invece i segreti di un sistema d’ingegneria sociale dove i lavoratori del programma nucleare sono ridotti in semi schiavitù, e il loro destino è segnato sin dalle scuole elementari. Nelle oltre duecento pagine del Committee for Human Rights in North Korea (Hrnk, una ong Americana molto influente) si spiega il sistema perfezionato attraverso la leadership di Kim Jong Il e poi di suo figlio, Kim Jong Un. Il regime chiede alle unità amministrative locali di selezionare e reclutare i bambini che siano bravi in matematica e scienze: la prima selezione viene fatta alle scuole elementari, specialmente se la famiglia viene da situazioni di difficoltà economica, più facilmente ricattabile. Parte dei selezionati viene poi mandata alla prestigiosa scuola media N. 1 di Sinwon-dong, nella capitale Pyongyang, la stessa in cui ha studiato l’ex leader Kim Jong Il. Poi si passa direttamente alle cinque università che formano la leadership nordcoreana, tra cui la Kim Il Sung University e  la National Defense University. La leadership, scrive l’autore dello studio, l’analista Robert Collins, sceglie per lo studente quale sarà la sua materia d’indirizzo: fisica, matematica, meccanica, scienze applicate. A quel punto “il loro destino personale e professionale è segnato. Dovranno lavorare per il regime di Kim come professionisti del settore nucleare. Le uniche differenze sono il posto di lavoro, la qualità dell’alloggio, il cibo e la qualità della vita”. Molti, scrive Collins, non possono nemmeno scegliere chi sposare.

 


Prima del Covid gli studenti delle migliori università nordcoreane al servizio del regime venivano spesso mandati anche all’estero a studiare, e questo nonostante gli sforzi internazionali per limitare gli scambi accademici in aree con potenziali applicazioni militari. Ce ne sono stati diversi anche in Italia: per anni degli studenti nordcoreani hanno studiato Architettura all’Università La Sapienza di Roma. Nel 2010 c’è stato un tentativo di attivare una collaborazione con l’Università degli Studi “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara a opera del professor Samuele Biondi che, contattato dal Foglio, spiega che però la collaborazione con la University of Construction and Building Materials di Pyongyang non è andata molto oltre una missione del docente nella capitale nordcoreana, e l’ultimo contatto con lui da parte di docenti di Pyongyang è avvenuto via email nel 2017. Poi però c’è il caso di Trieste: il dipartimento di Fisica dell’Università Kim Il Sung ha collaborato a lungo con la Scuola internazionale superiore di Studi avanzati (Sissa) del comune friulano. Nel 2019 è stato firmato un accordo, secondo Nature “approvato dal ministero degli Esteri italiano”, per formare studenti nordcoreani nel settore delle neuroscienze. Trieste era finita anche nel report degli esperti dell’Onu nel 2017, quando gli investigatori del Consiglio di sicurezza avevano chiesto all’università di spostare gli studenti nordcoreani da indirizzi di studi che potevano avere applicazioni militari, come la facoltà di Fisica, a facoltà più teoriche come Matematica. Il Foglio non è riuscito a mettersi in contatto con il dipartimento relazioni internazionali della Sessa.  

Terminata la formazione, il Partito sceglie dove i neolaureati andranno a lavorare, nella ricerca o negli impianti, perfino nelle miniere: “Scienziati e ingegneri nucleari sono assegnati per lo più in base alla classificazione socio-politica (lo songbun), come tutti gli altri in Corea del nord. Gli scienziati con songbun più basso sono assegnati a posizioni e sedi che offrono una qualità di vita inferiore. Si tratta di una pratica discriminatoria che permea la società nordcoreana e vìola i diritti dei nordcoreani, compresi i lavoratori del settore nucleare”, scrive Collins.

La chiusura per il Covid  ha cambiato molte cose in Corea del nord, ma la collaborazione internazionale sta pian piano ricominciando, e i suoi “schiavi della Bomba” sono sempre lì. Ieri una delegazione di scienziati nordcoreani guidata da Ri Chung Gil, presidente della Commissione di Stato per la scienza e la tecnologia, è partita per Mosca per colloqui di alto livello, negli stessi giorni in cui il leader Kim Jong Un, visitando una fabbrica d’artiglieria, ha chiesto ai suoi lavoratori di produrre “armi più potenti”.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.