(foto EPA)

Teheran si prepara

L'Iran non si può permettere una guerra più grande, ma dopo Damasco i pasdaran vogliono rispondere

Cecilia Sala

Nel day-after dell'uccisione del pasdaran più vicino a Hezbollah, la Repubblica islamica preferisce lasciar fare il lavoro contro Israele alle milizie alleate sparse per il medio oriente. La Casa Bianca dice a Teheran: noi non c’entriamo e non sapevamo

Oggi i quotidiani iraniani non hanno aperto con la notizia dell’uccisione del generale pasdaran Mohammad Reza Zahedi a Damasco. Nel 2020, quando gli israeliani ammazzarono Mohsen Fakhrizadeh, lo scienziato pasdaran padre del programma nucleare di Teheran, i giornali iraniani non avevano avuto dubbi e avevano messo la fotografia del morto a tutta pagina. Per gli analisti questa differenza è un segnale: dal 7 ottobre la Guida suprema Ali Khamenei non ha mai voluto che la guerra si allargasse a tutta la regione perché non ha intenzione di fronteggiare in modo diretto “un paese con la bomba atomica”, Israele, quindi non esagera nel dare visibilità alle notizie clamorose come quella del raid contro il consolato di Damasco.

La Repubblica islamica preferisce lasciar fare il lavoro contro lo stato ebraico alle milizie alleate sparse per il medio oriente. L'altroieri il direttore dell’agenzia stampa iraniana Raja, che lavora per il genero del presidente Ebrahim Raisi, ha tentato di contenere la domanda di vendetta che arrivava dai parlamentari conservatori e dai blogger militari iraniani scrivendo che “è importante lasciare la politica estera e le faccende che riguardano la sicurezza nazionale a chi ha la competenza per occuparsene. Queste materie non dovrebbero mai essere discusse in piazza”. Anche il comunicato dei Guardiani della rivoluzione (i pasdaran) che annunciava il “martirio” del loro generale Zahedi a Damasco non conteneva una promessa di vendetta contro “l’entità sionista” – la formula che si usa in Iran per nominare Israele senza attribuirgli lo status di nazione legittima. Nonostante il comunicato insolitamente prudente, scritto per obbedire alla linea tenuta negli ultimi mesi dal capo supremo del paese, i pasdaran sono sempre più insofferenti perché vedono che Israele si pone meno limiti che in passato nell’uccidere i loro colleghi e i loro superiori, e cominciano a domandarsi: quanti altri di noi moriranno se non siamo capaci di reagire e di ristabilire la deterrenza?  

Secondo i media iraniani che hanno fonti tra i loro connazionali a Damasco, alle 16.45 di lunedì due aerei israeliani F-35 sono decollati dalle alture del Golan e hanno lanciato sei missili contro la palazzina accanto all’ambasciata iraniana in Siria, dove si trovavano la residenza dell’ambasciatore e il consolato di Teheran. Hanno ucciso il generale Mohammad Reza Zahedi, che è il più importante militare iraniano ammazzato dai nemici da quando, quattro anni fa, un drone americano polverizzò il generale Qassem Suleimani; il suo vice; il generale iraniano responsabile per le operazioni in Palestina (amico dei leader di Hamas e del Jihad islamico) e altri quattro ufficiali della Repubblica islamica. 

Il generale Zahedi era molte cose per Teheran: era al vertice della catena di comando dei pasdaran in tutto il Levante ed era l’unico membro non libanese della Shura (il consiglio direttivo) della milizia-partito Hezbollah. In sostanza Zahedi poteva esercitare il diritto di veto rispetto alle decisioni cruciali del movimento sciita libanese, comprese quelle che riguardano un’eventuale escalation al confine con Israele, dove gli scambi di fuoco iniziati da Hezbollah l’8 ottobre fanno morti – anche civili – da entrambe le parti ma non si sono ancora trasformati in guerra aperta. Soltanto tre giorni prima del raid su Damasco il ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, aveva promesso di portare “ovunque” la campagna di bombardamenti contro Hezbollah. 

L’attacco di lunedì pomeriggio  contro la capitale siriana non ha precedenti non tanto per la rilevanza delle vittime quanto perché Israele non aveva mai bombardato una sede diplomatica di Teheran. Anche se, in assoluto, lo stato ebraico non è nuovo agli agguati sul territorio iraniano e l’attentato con una mitragliatrice robot controllata a distanza che nel 2020 uccise il fisico Fakhrizadeh ne è un esempio. Quando nel 1998 i talebani colpirono una delegazione di diplomatici iraniani in Afghanistan, Khamenei ipotizzò di invadere il paese per rappresaglia e fu fermato dal presidente riformista dell’epoca, ma oggi i tempi sono cambiati e soprattutto il nemico è molto diverso.

Per contenere i malumori dei pasdaran oggi Khamenei ha promesso una vendetta senza una data di scadenza e ha detto: “Quel regime malvagio (Israele) sarà punito dai nostri uomini coraggiosi. Li faremo pentire di aver commesso questo e altri crimini”. Il riferimento ai “nostri uomini”, almeno a parole, significa che la rappresaglia – quando e se arriverà – non sarà condotta dalle milizie ma dagli stessi Guardiani della rivoluzione. Intanto il raid israeliano su Damasco ha già fatto saltare il patto non scritto tra iraniani e americani che, dall’inizio di febbraio, aveva fermato tutti gli attacchi delle milizie amiche di Teheran contro le basi degli Stati Uniti in Iraq e in Siria.  Lunedì sera sono ripartiti i primi droni contro la base americana di al Tanf, all’intersezione tra Siria, Iraq e Giordania (era un drone contro al Tanf anche quello che aveva ucciso tre soldati americani in Giordania alla fine di gennaio). Questo nonostante l’Amministrazione Biden abbia fatto sapere agli ayatollah che la Casa Bianca non è coinvolta nell’attacco contro il consolato di Damasco né era stata informata dagli israeliani in anticipo.

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