Un ragazzo sventola la bandiera di Israele a Gerusalemme (foto LaPresse)

L'analisi

Gaza spiegata ai pacifinti. Undici risposte “for dummies” 

Daniela Santus

Dalla “occupazione” alle risorse idriche (garantite dal governo israeliano). Dal metodo terrorista di Hamas con la massimizzazione delle vittime civili al “dual use”. Tutte le fake news su Israele

Quanto è grande Israele? Nella percezione di molti studenti e docenti (non di geografia!) Israele è un paese grande almeno quanto l’Italia. In realtà si tratta di uno Stato molto piccolo: all’incirca della stessa ampiezza del Piemonte (circa 22 mila kmq) e, per il 60 per cento del suo territorio, occupato da aree desertiche. I Territori palestinesi hanno la medesima ampiezza della Città  metropolitana di Torino (6.210 kmq, dei quali la parte più ampia è quella cisgiordana). Nonostante ciò, immaginando di trovarsi di fronte a un’area paragonabile all’Italia, se non più ampia, coloro i quali propongono il boicottaggio degli accordi con gli atenei israeliani affermano che Israele stia effettuando uno “scolasticidio” e abbia raso al suolo ben 14 università nella Striscia di Gaza. Il che rasenta l’assurdo, anche soltanto pensando al fatto che, in soli 365 kmq (l’area della Striscia), possano esistere ben 14 università. Come se esistesse un’università ogni 26 chilometri quadrati.


Apartheid? Questo è uno slogan ripetuto come un mantra. Eppure in Israele non ci sono mezzi di trasporto, scuole o edifici in cui gli arabi non possano entrare o ruoli che gli arabi non possano ricoprire. Negli ultimi sette anni, ad esempio, il numero degli studenti arabi nelle università israeliane è cresciuto del 78,5 per cento. Tra questi molti sono anche i palestinesi dei Territori. Oltretutto, al fine di rendere il livello degli studenti palestinesi pari con quello degli israeliani,  vengono regolarmente organizzati corsi di un anno preparatori specificamente dedicati a loro. Diversi sono anche i partiti arabi rappresentati alla Knesset: Balad, United Arab List, Islamic Movement in Israel, Ta’al. Il precedente governo, guidato da Naftali Bennet, aveva al suo interno il partito arabo-islamico Raam con 4 seggi. Di fatto gli arabi in Israele godono di pieni diritti politici e civili e possono assurgere a qualsiasi carica, al pari dei cittadini ebrei. Basti ricordare Abdel Rahman Zuabi (islamico), giudice della Suprema Corte  israeliana, Ali Yahya (islamico) ambasciatore d’Israele in Finlandia e poi in Grecia, Walid  Mansour (druso) ambasciatore in Vietnam, Mohamed Masarwa (islamico) console generale ad Atlanta, Ishmael Khaldi (beduino) console a San Francisco, il generale Hussain Fares (druso) comandante della Polizia di confine, Jamal Hakroush (islamico) ispettore generale delle forze di Polizia israeliane. Nel 2018 il numero di dottorandi di ricerca arabi in Israele ha raggiunto le 759 unità. Volendo andare più nel divertente, basti pensare a Rana Raslan, modella araba eletta Miss Israele già nel 1999.

  

Arafat rifiutò l’offerta di uno Stato palestinese con Gerusalemme est capitale, scatenando il terrorismo

     
Occupazione? Israele più volte si è ritirato dai territori conquistati nelle guerre che gli Stati arabi hanno scatenato al fine di “eliminare la presenza sionista”. Lo ha fatto in cambio di trattati  di pace o nella speranza di poter sottoscrivere dei trattati di pace. Ciò è accaduto con  l’evacuazione dei villaggi ebraici costruiti nel Sinai, come anche nella Striscia di Gaza. Da agosto 2005 non ci sono più ebrei nella Striscia. Ariel Sharon, allora primo ministro, aveva deciso il disimpegno unilaterale – ovvero senza chiedere nulla in cambio – portando a termine l’evacuazione di tutti i 21 insediamenti della Striscia e di quattro piccoli villaggi nel nord della Samaria. A quella data diversi erano già stati i rifiuti palestinesi di possibili piani di pace.  Pensiamo in primo luogo a quello del 2000, sotto gli auspici di Bill Clinton, quando Yasser Arafat aveva rifiutato l’offerta israeliana di uno Stato palestinese con Gerusalemme Est capitale, scatenando due decenni di terrorismo, una guerra civile e il crollo della fiducia israeliana su una possibile futura pace coi palestinesi. E altri rifiuti seguiranno dopo. La strategia palestinese alle offerte di pace è sempre stata il terrore. 

 
Palestinesi vittime e Israele guerrafondaio? Per certo la popolazione palestinese soffre per le  scelte dei suoi leader. La strategia di questi è sempre stata quella di utilizzare il terrore contro i civili israeliani e, possibilmente, massimizzare le perdite tra i civili palestinesi. Una strategia addirittura più antica della conquista israeliana di Cisgiordania e Gaza nel 1967. Quando l’Olp venne fondata nel 1964 con l’obiettivo di scacciare gli ebrei dal paese, la Cisgiordania era ancora controllata dalla Giordania e la striscia di Gaza dall’Egitto. Nessuno in quegli anni chiese ai due paesi arabi di far nascere lo Stato palestinese. Eppure l’Olp adottò il terrorismo come strategia fondamentale per la “liberazione”. D’altra parte si possono trovare episodi anche più antichi, basti pensare alle violenze palestinesi contro gli ebrei nel 1920, 1929 e poi nella cosiddetta rivolta araba del 1936-’39. E tornando alle violenze del 2000, quale logica potrà mai esserci nel rispondere a un piano di pace scatenando attentati nelle città e nei villaggi israeliani per  uccidere uomini, donne e bambini sugli autobus, nei mercati, nelle discoteche e nelle pizzerie? Eppure nel 2000 il processo di pace non aveva ancora conosciuto periodi di stagnazione. Nessun partito di estrema destra faceva parte della coalizione di governo, porre fine  all’occupazione era un’idea che aveva prevalso alle elezioni. Non c’erano soldati israeliani in nessuna città o villaggio palestinese – erano stati ritirati nei tre anni precedenti – e i redditi e i  tassi di istruzione universitaria palestinesi erano in aumento. Dunque perché? La ricetta “territori in cambio di pace”, che si riteneva vincente e che aveva funzionato con l’Egitto con lo  sgombero degli insediamenti ebraici nel distretto di Yamit, nel deserto del Sinai nel 1982, è  risultata del tutto inadeguata nel 2005 e qualsiasi altro tentativo israeliano sembra non raggiungere lo scopo. La risposta forse sta nello slogan “dal fiume al mare” ripetuto nei cortei  delle piazze europee e statunitensi: i palestinesi hanno convinto tutti che Israele non debba più esistere e che non debbano più esserci ebrei tra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo.


Hamas è un gruppo terroristico o un partito politico? Hamas, movimento fondamentalista islamico, nasce alla fine degli anni ’80 come costola dei Fratelli musulmani ed è da sempre in guerra contro Israele, ritenuto occupante di tutta la terra dal fiume Giordano al mar Mediterraneo. Scopo dichiarato è quello di cancellare la presenza d’Israele con la lotta armata. Dopo il ritiro di Israele dalla Striscia di Gaza nel 2005, Hamas ha sfruttato la sua vittoria alle elezioni legislative palestinesi del 2006 per prendere militarmente il controllo della Striscia  scatenando una violenta guerra civile contro l’Autorità palestinese. Gli obiettivi principali di Hamas sono essenzialmente due: porre fine allo Stato di Israele e stabilire il dominio islamico palestinese su tutta l’area. Per riuscirci adotta una strategia consolidata negli anni e che può  essere riassunta in tre punti: 1) attaccare Israele e resistere alle sue ritorsioni; 2) guadagnare influenza politica presso il popolo palestinese; 3) guadagnare consensi nell’opinione pubblica mondiale anche a costo di massimizzare le perdite civili. Questi obiettivi sono interconnessi e si rafforzano reciprocamente. Il terrore, anche per quanto riguarda Hamas, è stata la scelta preferita sin dagli anni della sua fondazione: questo ha compreso attentati suicidi, lanci  indiscriminati di razzi, attacchi di cecchini, lanci di palloncini incendiari, accoltellamenti e sequestri di civili.  


I palestinesi e le armi. Quanto alle armi, all’indomani del disimpegno israeliano da Gaza, Hamas ha cercato il modo per migliorare la qualità dei suoi razzi al fine di riuscire a colpire Israele in  profondità. Di fatto i lanci di razzi nel sud d’Israele rappresentavano già la quotidianità nel 2001, tanto che si può calcolare che un bambino nato nel 2001 nel sud d’Israele ha trascorso 23 anni della sua vita in costante stato di guerra, con l’incubo delle sirene e delle corse al più vicino rifugio da raggiungere in pochi secondi. Iran e Siria sono stati i primi paesi a rifornire la Striscia  con razzi a più lungo raggio, più precisi e più potenti. Pertanto ai rudimentali Qassam si sono aggiunti razzi di fabbricazione russa, cinese, iraniana e siriana, oltre che propria. Alcuni di questi  arrivano a colpire sino a 180 km di distanza che, viste le ridotte dimensioni d’Israele, potrebbe significare permettere attacchi addirittura in territorio giordano. Quando, nel 2009, entra in servizio il sistema di difesa aerea Iron Dome, avviene il cambio di tattica da parte di Hamas. Se prima, infatti, gli attacchi erano condotti con un elevato numero di ordigni ma spalmati in un ampio arco temporale, negli ultimi anni si è notata la concentrazione in attacchi massicci per cercare la saturazione delle difese israeliane, ovvero per oltrepassare lo scudo di Iron Dome con la sola forza del numero. Non diversamente fanno le milizie Hezbollah dal Sud del Libano e dalla Siria.

  

L’assedio alla Basilica di Betlemme, la madre di tutte le fake news. Una strategia che i media occidentali accettano

     
Strategie di guerra e fake news. Comprendere la strategia di Hamas non è semplice. Quasi ogni  sua azione è pianificata per provocare la risposta israeliana, in quanto ogni incursione armata israeliana che Hamas è riuscito a provocare gli ha fornito consensi. L’alto tasso di perdite civili rispetto a quelle dei miliziani è dovuto alla scelta di Hamas di nascondere i propri combattenti nei quartieri abitati, di trasportarli con le ambulanze, di nasconderli nelle scuole, negli ospedali anziché affrontare le truppe israeliane al di fuori di essi. E i consensi vengono costruiti accuratamente grazie all’uso importante di fake news: dai dati dei morti nel conflitto alle accuse di privare i palestinesi di acqua e degli aiuti alimentari. Come è già stato fatto notare in questi  giorni, il numero delle vittime comunicato quotidianamente da Hamas – e preso per buono senza riscontro alcuno – presenta delle enormi incongruenze, crescendo in maniera costante e indicando sempre un 70 per cento di vittime composto da donne e bambini, un 10 per cento da uomini e un 20 per cento da combattenti. Le fake news sono uno strumento eccezionale per orientare l’opinione pubblica, come dimenticare quella che è forse la regina delle fake news e che riconduce all’assedio alla Basilica della Natività? I fatti ci narrano che, in seguito all’ingresso dei carri armati israeliani a Betlemme il 30 marzo 2002, in risposta al terribile attentato suicida palestinese che a Netanya aveva ucciso 29 persone e ne aveva mutilate e ferite oltre un centinaio, più di duecento palestinesi armati avevano forzato la porta della basilica e si erano rifugiati all’interno. Nel parapiglia si ritrovò coinvolto anche un gruppo di giornalisti. L’assedio durò 39 giorni e, nel corso di quel periodo, frati e giornalisti si occuparono attivamente di propaganda. Alcuni esempi tra i tanti: “Siamo stati attaccati dai soldati israeliani”, “Bombe sulle chiese. Otto le vittime. Giallo sulla morte di un frate salesiano, ucciso dentro il convento di Santa Brigida”, “Il furore israeliano si accanisce contro i simboli delle religioni cristiane e islamiche”. Inutile dire che successivamente venne appurato che non furono mai sganciate bombe sulle chiese e che il Padre Amateis, “assassinato sull’altare”, fu rivisto vivo e sereno il giorno successivo alla comparsa dell’articolo. Soltanto l’11 maggio la verità venne finalmente a galla: alla fine dell’assedio, quando i giornalisti e gli operatori del soccorso poterono entrare,  all’interno della basilica c’era ancora abbondanza di cibo, c’era acqua, c’era la corrente elettrica,  anche se la basilica (anche se non i simboli cristiani) era stata devastata dai palestinesi armati. Nonostante ciò, l’occupazione della basilica da parte dei miliziani palestinesi fu un grande successo mediatico per la causa palestinese stessa, proprio grazie alle storture dell’informazione. Non è diverso oggi, ad esempio nel caso dell’acqua. 


Gli israeliani lasciano i palestinesi di Gaza senz’acqua e senza elettricità? Nonostante gli scontri del 2012 e del 2014, in risposta al continuo e prolungato lancio di razzi palestinesi da  Gaza contro le città israeliane, a partire da giugno 2019 ha avuto inizio la costruzione da parte dell’azienda israeliana Mekorot – grazie ai fondi della Comunità europea e della Banca islamica  per lo sviluppo – di un grande impianto di desalinizzazione in grado di rendere potabile 55 milioni di metri cubi di acqua per la Striscia di Gaza e, più in generale, di migliorare il sistema di gestione delle acque. Oltre a questo impianto, attualmente ancora funzionante, vi erano altri sei impianti per la desalinizzazione lungo la costa. Questi sono stati parzialmente o totalmente danneggiati dalla guerra, ma già dal 29 ottobre Israele è stato in grado di riaprire la seconda delle tre condotte idriche verso Gaza e convogliare nella Striscia 28,5 milioni di litri di acqua  potabile al giorno. Uno dei problemi della guerra, tra i tanti, è tuttavia la scarsità di energia per  far funzionare gli impianti: Hamas afferma che – al momento – ogni palestinese di Gaza ha a disposizione non più di tre litri d’acqua al giorno a testa e, già a poche ore dall’inizio del conflitto, il sito Islamic Relief Worldwide aveva affermato che, senza carburante o elettricità, era impossibile rifornire d’acqua le case, gli ospedali, le fattorie e le scuole di Gaza. La domanda, destinata a restare priva di risposta, è: come mai Hamas preferisce adoperare il carburante per sparare razzi di varia portata sulle città israeliane piuttosto che utilizzarlo per far funzionare l’impianto di desalinizzazione dell’acqua a beneficio della popolazione?

  
Israele impedisce l’arrivo degli aiuti umanitari? Prima del 7 ottobre 2023 i dati dell’Onu  mostrano che ogni giorno entravano a Gaza circa 70 camion di cibo; dal 1 marzo 2024 ne entrano 126. Pertanto dal 7 ottobre sono entrati a Gaza oltre 17.400 camion di aiuti con oltre 218.000 tonnellate di cibo. E’ dunque evidente che Israele non ponga alcuna restrizione alla  quantità di cibo che entra a Gaza. Il problema è che Hamas sta dirottando gli aiuti: i miliziani rubano le derrate e le rivendono a prezzi altissimi ai cittadini della Striscia di Gaza; in altri casi  le scorte si accumulano nei magazzini delle agenzie umanitarie. Intanto i palestinesi patiscono la fame. Per alleviare le sofferenze della popolazione civile sarebbero necessari più varchi di  entrata, soprattutto dall’Egitto che non si trova coinvolto nel conflitto. Di fatto, in risposta alle  necessità umanitarie palestinesi, l’Egitto ha rafforzato il muro in cemento eretto lungo il confine  con la Striscia di Gaza per impedire il transito di eventuali profughi. 

  

Israele stava per siglare uno storico accordo con l’Arabia. I sauditi avevano chiesto  concessioni per i palestinesi

   
Non dimenticare il 7 ottobre. Perché Gaza si trova in questa situazione? Se il 7 ottobre Hamas  e altri gruppi terroristici con sede a Gaza – e forse la mente tra Mosca e Teheran – non avessero  perpetrato in un sol giorno il massacro più efferato degli ultimi vent’anni non ci sarebbe stata  la guerra. D’altra parte, nell’ottobre 2023 Israele stava per siglare uno storico accordo di pace con l’Arabia saudita. Per farlo, i sauditi avevano richiesto anche significative concessioni per i  palestinesi. Si sarebbe trattato di un accordo che avrebbe seguito quelli già siglati tempo  addietro con Egitto e Giordania e, più recentemente, con Emirati Arabi Uniti e Bahrein.  Ovviamente una situazione di questo genere, foriera di una pacificazione dell’area e, potenzialmente, favorevole a un ritorno sulla scena politica dell’Autorità palestinese di Abu  Mazen non poteva essere accettato dalla strategia jihadista di Hamas. Così, la mattina del 7 ottobre, i miliziani di Hamas hanno optato per la strage più cruenta – per numero e modalità – mai compiuta, potendo beneficiare di maggiori possibilità di spostamento tra la Striscia e  Israele. Questo grazie a quello che era stato un consistente programma civile ed economico  per Gaza da parte del precedente governo israeliano Bennett-Lapid. Infatti quel programma aveva notevolmente aumentato il numero di permessi di lavoro per i palestinesi di Gaza, che  potevano così recarsi in Israele dove il salario giornaliero di un lavoratore è sufficiente a  sostenere altre dieci persone. In un territorio impoverito, con un tasso di disoccupazione di  circa il 50 per cento, i permessi di lavoro in Israele stavano cominciando a migliorare la vita dei  palestinesi della Striscia e a stabilizzarne l’economia. Il programma aveva introdotto anche  incentivi economici per Hamas, se avesse mantenuto la pace: condurre attacchi avrebbe potuto  comportare restrizioni immediate sui permessi e chiusure dei valichi di frontiera. Proprio quello  che desiderava Hamas: il caos e la guerra. Una guerra deliberatamente scatenata contro i  bambini, i giovani, le famiglie e gli anziani in Israele la cui unica colpa era quella di essere ebrei  e che sta continuando a Gaza, mietendo vittime tra i bambini, le donne e gli anziani cui Hamas ha impedito di evacuare per evitare di morire sotto i bombardamenti israeliani. Gli orribili  omicidi, torture, stupri, profanazioni di corpi e rapimenti di civili hanno rivelato la strategia di  Hamas, così come di coloro che hanno celebrato e giustificato il massacro nelle piazze di mezzo  mondo. E se qualcuno pensa che Israele sia contento della guerra, sbaglia. I soldati sono giovani  ragazzi e ragazze che hanno lasciato le loro case e i loro studi, le loro famiglie e non vedono  l’ora che la guerra finisca per tornare a una vita normale. Una vita che molti non avranno più,  perché l’hanno persa a Gaza. Come vorrebbero una vita normale i circa 200 mila sfollati  israeliani che hanno dovuto lasciare le loro case nel Sud del paese come anche, nel Nord, in  Galilea. L’economia è paralizzata e il turismo scomparso. Si chieda il ritorno degli ostaggi e  l’abbandono del potere da parte di Hamas: in quel caso la guerra cesserà all’istante. 

  

Il “dual use”? Dalla interruzione dei rapporti con le università israeliane ci rimetterà di più l’Italia

    
Dual use e collaborazioni accademiche. In questi giorni si sente molto parlare di dual use e  della necessità delle università italiane di interrompere i rapporti con quelle israeliane. Dell’Università di Torino, che ha bloccato la partecipazione al Bando del Maeci, si è detto  molto, più sottile è stata la presa di posizione della Normale di Pisa che ha addirittura chiesto al ministero di “riconsiderare” il Bando scientifico 2024. Ma cosa si intende con dual use? Il  termine identifica la ricerca accademica su prodotti e tecnologie che, pur essendo progettati  per scopi civili, possono essere utilizzati per scopi militari particolarmente inerenti le armi  chimiche, biologiche o nucleari. In realtà il dual use, potenzialmente, abbraccia ogni aspetto  della nostra vita: in rete circola un video propaganda di Hamas in cui si vedono i miliziani  dissotterrare condutture idrauliche (a proposito di emergenza acqua!) e trasformale in rampe  di lancio missilistiche. Anche l’uso di un semplice coltello espone al rischio di dual use: può  essere adoperato per sbucciare una mela o per uccidere una persona. Dovremmo forse  boicottare l’uso dei coltelli? E soprattutto, perché il possibile dual use spaventa soltanto se il  partner accademico è Israele? Che dire degli accordi in essere, con università iraniane, che  coinvolgono la fisica nucleare? Il Bando Maeci, che si intende boicottare o riconsiderare,  prevede la collaborazione su tre temi: 1) tecnologie per un suolo sano, 2) tecnologie per l’acqua, 3) ottica di precisione. Credo che a perderci, dall’allontanamento dalla collaborazione, sarà più l’Italia che non Israele.

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