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il conflitto

Il Qatar è disposto a molto per restare protagonista in medio oriente

Alissa Pavia

Il primo ministro qatarino ha presentato una proposta di pace per un cessate il fuoco permanente tra Israele e Hamas. Ma sulla mediazione condotta dall'emirato essere scettici non è sbagliato

Il primo ministro e ministro degli Esteri del Qatar, Mohammed bin Abdulrahman bin Jassim al Thani, di fronte a un pubblico di esperti a Washington, ha evidenziato una nuova proposta di pace per l’attuale crisi mediorientale che potrebbe tradursi in un raggiungimento di un cessate il fuoco permanente tra Israele e Hamas. La proposta è stata presentata al gruppo islamista Hamas da Israele il 29 gennaio, mediata dal Qatar e sostenuta dall’Egitto, una proposta che vedrebbe una pausa di due mesi di qualsiasi intervento armato da ambedue le parti, il rilascio degli ostaggi israeliani in cambio di un numero cospicuo di prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane (tra i quattro e cinquemila), e il rilascio di altri approvvigionamenti umanitari per i residenti della Striscia di Gaza. “Abbiamo fatto un buon progresso” ha annunciato  al Thani: “Vogliamo trasmettere questa proposta a Hamas e cercare di portar loro a un punto in cui possano impegnarsi in modo positivo e costruttivo”.

Sembrerebbero ancora da definirsi, però, le basi per una tregua stabile e duratura che gli israeliani hanno già annunciato di non voler accettare, e che quindi richiederebbe ulteriore mediazione da parte dei qatarini. “Non sappiamo e non possiamo prevedere quale sarà la risposta di Hamas, e siamo sicuri che ci troveremo di fronte ad alcune sfide e ostacoli”, ha concluso al Thani. 

Molti, però, si riservano un alto grado di scetticismo verso il Qatar, primo fra i quali il premier israeliano Benjamin Netanyahu, che ha reso noto il suo disdegno per la mediazione qatarina quando ha reiterato in una telefonata privata con le famiglie degli ostaggi israeliani che non ha alcuna intenzione di ringraziare il Qatar per il suo ruolo di mediatore. “Non è molto diverso né dall’Onu né dalla Croce Rossa”, ha fatto sapere il premier israeliano, ribadendo il fatto che, secondo lui, il Qatar finanzierebbe Hamas. Accuse che più e più volte il Qatar ha smentito. 

Il premier israeliano non ha tutti i torti a diffidare del Qatar. L’emirato, una penisola di soli 2,6 milioni di abitanti, ha infatti un forte legame storico con l’islamismo, specialmente con i Fratelli musulmani e Hamas stesso, ed è l’unico paese al mondo che accoglie quei membri di Hamas che il Qatar definisce “ala politica”.  Si tratta di una definizione altamente problematica dal momento che la gran parte dei paesi occidentali definisce Hamas come ente terrorista, senza porre distinzione tra ala militare e politica. Inserito geograficamente fra due enormi potenze rivali (l’Arabia Saudita da un lato e l’Iran dall’altro), il Qatar si afferma nella scena mondiale nei primi anni Settanta, consapevole di dover trovare un suo rilievo per non essere inglobato dai paesi limitrofi, scegliendo così di sostenere un gruppo che nella regione stava aumentando di fama, ovvero i Fratelli musulmani in Egitto. Aumentare le proprie chance di sopravvivenza come neo stato attraverso l’uso del soft power, ovvero la capacità di un paese di avere rilevanza sulla scena mondiale attraverso mezzi non coercitivi: era questo il modus operandi del minuscolo emirato situato strategicamente nel Golfo Persico. Grazie agli enormi introiti derivanti dal settore petrolifero ed energetico, il Qatar finanzia fino al giorno d’oggi gruppi islamisti con legami certi a enti terroristici, fra cui i talebani in Afghanistan, Jabhat al Nusra in Siria e Hamas a Gaza. Grazie anche ai suoi potenti mezzi d’informazione tra i quali la nota tv di stato al Jazeera, il Qatar acquisisce la notorietà di una piccola potenza del medio oriente, assicurandosi così la sua sopravvivenza in uno scacchiere geopolitico continuamente in evoluzione. 

Ma il piccolo emirato capisce anche che per sopravvivere dovrà garantirsi pure l’appoggio dell’occidente. Negli anni Novanta, dunque, raggiunge un accordo con gli Stati Uniti per costruire una base militare americana, che servirà come base strategica nelle guerre americane in Afganistan, Iraq e Siria. Oggi rappresenta la base militare americana più grande del medio oriente.

Un ulteriore risvolto nella politica estera dell’emirato si avvia durante le primavere arabe nel 2010-2011, quando il Qatar si propone come mediatore nelle diverse guerre civili scoppiate in Libia, Siria, Yemen e in seguito anche in Sudan. Nel 2012, media una risoluzione tra Israele e Hamas durante l’operazione militare “Pillar of Defense”, attribuendosi riconoscenza internazionale per il suo ruolo di conflict mediator. A chi lo critica per il rapporto troppo stretto con Hamas, il Qatar risponde affermando che senza tali rapporti non vi sarebbe quella fiducia necessaria per raggiungere il negoziato di pace. 

Il Qatar comprende che il cambiamento di percezione da creatore di conflitti a moderatore può essergli molto di aiuto nel suo obiettivo di ritagliarsi il suo spazio nel medio oriente. Terzo al mondo per riserve di gas naturale, nel lungo periodo il Qatar rischia di diventare superfluo qualora la comunità internazionale dovesse effettivamente transitare verso le rinnovabili. Continua pertanto su questo percorso, ottenendo  risultati significativi: nel 2020-21 media tra gli americani e i talebani il ritiro americano dall’Afghanistan; più recentemente riesce a mediare il rilascio di prigionieri americani dall’Iran, uno scambio di prigionieri fra il Venezuela e gli Stati Uniti, il rilascio di cento ostaggi israeliani dalla Striscia di Gaza, e infine il rilascio di cinque bambini ucraini dalla Russia. Quando gli viene chiesto perché, a quale scopo, il Qatar risponde che vuol semplicemente veder emergere un ordine mondiale più stabile. Avendo inserito nella propria Costituzione del 2003 l’articolo 7 che stabilisce che “la politica estera dello stato si basa sul principio del rafforzamento della pace e della sicurezza internazionale incoraggiando la risoluzione pacifica delle controversie internazionali”, eleva questo principio a livello di identità nazionale.

E’ evidente che il Qatar stia emergendo come protagonista nella scena mondiale grazie al suo ruolo di mediatore, e che abbia raggiunto dei successi piuttosto notevoli che forse pochi altri stati hanno raggiunto (o forse nessuno). Ma è anche vero che la sua Costituzione risale solamente al 2003, mentre il suo sostegno agli islamisti risale a prima ancora della sua indipendenza, quando nel 1961 il Qatar diede a Yusuf al Qaradawi, uno dei teologi islamisti più noti al mondo soprattutto per le sue posizioni estremiste, una dimora fissa dove fondare la sua facoltà di Sharia e Studi islamici all’Università di Doha. 

Pertanto non si può ignorare completamente il contesto storico che accompagna questa moderna strategia politica internazionale. La rapida ascesa del Qatar è indubbiamente un segno dei tempi, ma l’ombra del passato getta dubbi legittimi sulla sincerità delle sue intenzioni. Gli sguardi scettici degli israeliani e degli occidentali riflettono piuttosto giustamente, nonostante i successi diplomatici recenti, il timore che il Qatar possa ancora essere intrappolato tra il suo ambiguo passato e una prospettiva futura che richiede ancora una chiara definizione. 

Alissa Pavia è direttrice associata del North Africa Program dell’Atlantic Council

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