La linea rossa di Biden

I primi morti americani dal 7 ottobre modificano i calcoli su come si evita un'escalation

Cecilia Sala

I soldati americani in Iraq e in Siria sono stati attaccati 160 volte dal 7 ottobre e hanno risposto otto volte. Ma dopo il primo bombardamento fatale il dilemma è se colpire i pasdaran. Il precedente, con Trump, portò all’assassinio del generale Suleimani

I soldati americani in Iraq e in Siria sono stati attaccati 160 volte dal 7 ottobre, e hanno risposto otto volte. Fino a questo momento Joe Biden ha scelto la prudenza come metodo per evitare che la guerra in medio oriente si allarghi ma, dal principio, il presidente degli Stati Uniti aveva tracciato la propria linea rossa: l’uccisione di soldati americani sul campo. Quasi tutti i 160 attacchi dei miliziani iracheni e siriani dell’Asse della resistenza – la galassia di gruppi armati che dipende dall’Iran – hanno mancato completamente il bersaglio oppure si sono andati a schiantare contro le difese aeree americane. L’ultimo invece ha ucciso tre militari degli Stati Uniti e ne ha feriti 34. 

La base statunitense di Tanf è in un punto strategico all’intersezione fra tre paesi: è in Siria, è vicina al confine con l’Iraq, è schiacciata contro la Giordania e collegata a un avamposto in territorio giordano – la Torre 22 – dove i tre militari sono stati uccisi mentre dormivano e altri loro colleghi sono stati feriti in modo grave, così domenica sono stati trasferiti d’urgenza in una base più sicura e più adatta a curarli in Europa.
Ieri i funzionari del Pentagono hanno spiegato cosa è andato storto nella caserma in Giordania: mentre i droni nemici si avvicinavano, anche un drone degli Stati Uniti stava tornando alla base, quindi la contraerea non era in funzione per non rischiare di abbatterlo. I miliziani sciiti passano ore e giorni a osservare gli americani in cerca di punti deboli e di occasioni come questa.

I responsabili del bombardamento contro cinque basi nella notte tra sabato e domenica – compreso quello che è andato a segno – sapevano che, se fossero riusciti a uccidere i soldati, avrebbero innescato una reazione americana diversa da quelle viste fin qui in quasi quattro mesi di guerra. A Washington i repubblicani in campagna elettorale stanno già rimproverando Biden, dicendo che le risposte rare e poco decise agli attacchi hanno reso le milizie nemiche ancora più spavalde e hanno incentivato il bombardamento fatale contro Tanf. Il senatore Lindsey Graham si è lamentato che “la retorica dell’Amministrazione Biden cade nel vuoto in Iran. La soluzione qui è un’altra: colpisci l’Iran adesso. Colpiscilo con forza”. Gli americani non colpiscono direttamente il territorio dell’Iran dagli anni Ottanta, e non è probabile lo facciano questa volta, però il presidente americano ha pronunciato parole inequivocabili sulla responsabilità di Teheran e ora il dilemma da sciogliere alla Casa Bianca è se rispondere prendendo di mira figure di peso tra i pasdaran iraniani che si muovono nelle regione oppure se colpire soltanto i gruppi armati sciiti che sono gli autori materiali dell’attacco. L’Amministrazione Biden deve studiare una risposta sufficientemente forte da dissuadere l’Asse della resistenza e al tempo stesso evitare di allargare il conflitto e impantanarsi in una guerra.

Il bombardamento multiplo del fine settimana è stato rivendicato da una sigla che non esisteva prima del pogrom di Hamas del 7 ottobre: la “Resistenza islamica irachena”. E’ una sorta di ombrello che tiene assieme tutte le milizie sciite d’Iraq e ha un obiettivo ulteriore rispetto alla solidarietà militare con i terroristi palestinesi che accomuna quasi tutto l’Asse della resistenza: cacciare gli americani dal proprio paese. 
La missione degli Stati Uniti in Iraq ha già concluso la fase che prevedeva i combattimenti sul campo tre anni fa e ora rimane un contingente di duemilacinquecento soldati che in teoria è lì soltanto per addestrare e consigliare le truppe irachene – ma che se viene attaccato risponde. I gruppi amici di Teheran però – in particolare i più agguerriti: Kataib Hezbollah, Kataib Sayyid al Shuhada e Harakat Hezbollah al Nujaba – vorrebbero vedere gli americani sparire del tutto e sperano che questa sia l’occasione giusta per cacciarli definitivamente. Di conseguenza il problema di Biden è che una risposta troppo dura contro le basi dei pasdaran o delle milizie sciite in Iraq renderebbe ancora più complicato il rapporto con il governo locale (che ha già criticato molto i raid di risposta americani, soprattutto l’ultimo del 23 gennaio) e rischierebbe di fare il gioco dei nemici, portando al risultato sperato dalla Resistenza islamica irachena: la rottura tra Washington e Baghdad. 

L’episodio più simile al colpo andato a segno contro la Torre 22 e più recente risale al 2019. All’epoca un contractor americano fu ucciso in un attacco di Kataib Hezbollah – la “Brigata del Partito di Dio” che fa parte della neonata Resistenza islamica irachena – e la reazione dell’Amministrazione Trump fu colpire i depositi di munizioni e i centri di comando del gruppo filoiraniano, uccidendo ventiquattro miliziani. Il leader di allora di Kataib Hezbollah, Abu Mahdi al Muhandis, avvertì: “La nostra vendetta contro gli americani in Iraq sarà durissima”. Ma gli Stati Uniti lo anticiparono e pochi giorni dopo al Muhandis fu ammazzato da un drone americano Mq-9 Reaper all’aeroporto internazionale di Baghdad. In quel caso, era assieme al suo finanziatore e protettore: il generale pasdaran Qassem Suleimani. 
 

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