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L'analisi

Carlson e Bannon, gli aedi del trumpismo

Giulio Silvano

Fuori da Fox, il conduttore costruisce in cravatta un suo Netflix privato contro i media tradizionali. L'ex consigliere con la barba sfatta usa la sua War Room per condizionare già da ora i lavori del Congresso

Si dice che il 2024 sarà un copia incolla del 2020, un’altra sfida tra un Joe Biden e un Donald Trump sempre più anziani. Ma c’è una notevole differenza tra le due campagne elettorali e il clima politico che circonda i due candidati, e ha a che fare con l’informazione della destra americana. Se oggi Trump può essere più esplicito e dire che si comporterà “da dittatore” il primo giorno del suo nuovo eventuale mandato, lo può fare perché nei suoi anni di ascesa politica la televisione filo repubblicana si è spostata sempre di più dal conservatorismo al populismo estremista. Una delle figure che ha cavalcato e allo stesso tempo implementato questo passaggio è stato Tucker Carlson, fino ad aprile volto numero uno di Fox News. Con i suoi monologhi in prima serata ha reso normale fare duri commenti anti immigrazione, accettare una retorica razzista ed esaltare Vladimir Putin e altri “uomini forti” a capo di nazioni dove il “wokismo” non è permesso. Ma soprattutto Carlson ha aiutato l’incessante condivisione, a un ampio pubblico (in media c’erano 4 milioni di americani e mezzo sintonizzati su Tucker Carlson Tonight) della narrazione alternativa sul voto del 2020: “Ha vinto Trump”.

E per non perdere il popolo trumpiano, come è risultato da alcune inchieste, Fox ha lasciato che Carlson continuasse a promuovere la storia della Big Lie, delegittimando la presidenza Biden e, in generale, la democrazia. Poi una settimana dopo esser stato costretto a pagare oltre 787 milioni di dollari a Dominion, azienda produttrice di macchinari elettorali diffamata dai programmi di Fox, Rupert Murdoch ha cacciato Carlson dalla sua rete. Il presentatore si è fatto prima un suo programma su Twitter, intervistando figure da lui ammirate come il presidente ungherese Viktor Orbán, e poi a dicembre ha lanciato un suo Netflix privato online (che fino a ora è solo una collezione di suoi vecchi video a 9 dollari al mese). Oggi il principale messaggio di Carlson, oltre al continuo ammiccamento agli autocrati di mezzo mondo, è uno solo: i media tradizionali mentono. Non ci si può fidare di nessuno, perché i “corporate media”, sono in combutta con i governi. “Il modo in cui vengono coperte le notizie in occidente è diventato uno strumento di repressione e controllo. I giornalisti nascondono le informazioni. Odiano la verità”, dice. È un modo per portare acqua al suo mulino, al Tucker Carlson Network, alla sua forzata indipendenza – e somiglia anche un po’ alla dinamica della volpe con l’uva. Carlson, che quando era in tv aveva uno stipendio di 45 milioni all’anno (esclusi i bonus), ora sembra infatti aver perso la sua influenza sul mondo alt right. Questo lo sta spingendo ad avvicinarsi ancora di più a Trump, ad appiccicarsi a lui sperando che non crolli sotto il fuoco dei tribunali, tanto che alcuni parlano del presentatore come di un possibile candidato alla vicepresidenza.

Per mostrare l’inutilità del primo dibattito delle primarie repubblicane Carlson ha fatto uscire in contemporanea con l’evento ospitato da Fox News la sua intervista a Trump. Così, mentre Nikki Halley e Ron DeSantis litigavano sul palco se era giusto o no aiutare l’Ucraina, Trump appariva calmo e al comando nel salotto Twitter del presentatore, elogiato e senza contraddittorio, a parlare di quanto Biden abbia distrutto il paese. Carlson però deve ancora capire quale sarà il suo ruolo, come del resto Fox sta cercando di capire quale sarà il suo. La rete è ancora vaga sulle primarie repubblicane (appoggiare Trump? Appoggiare Nikki Haley? Aspettare i giudici?). La confusione della Fox è anche data dalla diaspora che ha subìto negli ultimi anni. Oltre Carlson, se ne sono andati  Glenn Beck, Ben Shapiro, Megyn Kelly, Bill O’Reilly e altri, e tutti si sono ritrovati una propria dimensione nell’ecosistema della destra fatto di radio, blog, podcast e televisioni di nicchia, rifugio di chi trova Fox troppo istituzionale. Newsmax, per esempio, sta portando via parecchio pubblico a Murdoch. Il giorno dopo la cacciata di Carlson, Newsmax ha triplicato gli spettatori in quella che era la fascia oraria del Carlson Show. Fox sembra perdere sempre di più il dominio sulla Trumpland. 


Ma se Tucker Carlson ha sfruttato l’opportunità del trumpismo per ottenere il successo tramite un network già consolidato, per tornare poi suo malgrado nel sottobosco dell’informazione della destra paleoconservatrice, c’è chi è sempre stato comodo dietro le quinte e negli anfratti fumosi di Capitol Hill. Steve Bannon, il settantenne evoliano è stato il Rasputin di Trump nel primo periodo alla Casa Bianca, prima che fosse cacciato dalla corrente più moderata del circolo presidenziale capitanata dalla figlia Ivanka. Bannon aveva fondato Breitbart, la piattaforma di news per l’alt right con l’obiettivo di far diventare mainstream le idee in cui aveva sempre creduto. La posizione ideologica di Bannon si basa su un forte nazionalismo, sulla critica al globalismo di George Soros, e sul fatto che i repubblicani, escluso Ronald Reagan, non sono così diversi dai democratici. E negli anni di Barack Obama ha capito che c’era lo spazio per spostare lo spettro politico più a destra. Bannon è stato definito il Lieni Riefenstahl (l’abile regista della propaganda hitleriana) del movimento Tea Party.  Breitbart News, da cui poi Bannon se n’è andato, è stato fondamentale per fare in modo che esistesse una voce anti establishment che aprisse la porta a quello che poi è diventato il populismo trumpiano. La lettura dei mistici esoterici, la fascinazione per i nazionalismi europei novecenteschi e la capacità di usare le nuove tecnologie per la comunicazione hanno permesso a Bannon di diventare una figura centrale dell’informazione della destra alternativa.

Oggi il suo podcast War Room viene definito il nuovo Breitbart. Quello che nel 2016 serviva come grimaldello per distruggere gli equilibri bipartitici esistenti ora assomiglia di più a un’arma da fuoco. E non è un caso che avvicinandosi alle elezioni la sua voce si faccia sentire sempre di più. Molte delle teorie cospirazioniste che poi diventano centrali nel dibattito pubblico e nell’identità dei trumpiani sono partite da Bannon. Secondo uno studio di quest’anno, War Room è risultato essere il più grande contenitore di disinformazione in America, su temi che vanno dai vaccini all’aborto. “Trump è un badass, un duro”, ha detto Bannon di recente, ricominciando a mostrarsi in pubblico in vista del 2024. Bannon quando è intervistato parla già come se fosse parte della seconda Amministrazione Trump. Dopo i sondaggi che danno l’ex presidente in vantaggio non solo nelle primarie di partito ma contro Biden, Trump ha già detto che non farà gli errori del passato. Si circonderà solo di fedelissimi, di persone che obbediscono, e non di individui che metteranno dei freni ai suoi desideri autocratici. È già stato delineato un piano, più Maga che mai, di cui Bannon è molto orgoglioso, perché è quello che lui avvalora da anni. Lo ha stilato l’avvocato Mike Davis, altro personaggio chiave dei fedelissimi. I punti principali sono: depurare il deep state del dipartimento della Giustizia, incriminare tutta la famiglia Biden, deportare dieci milioni di immigrati e graziare tutte le persone coinvolte nell’attacco al Campidoglio del 6 gennaio. “Penso che sia un piano fantastico”, ha detto Bannon. “Sarà la più grande deportazione della storia”. Quella che per Trump è una vendetta contro i suoi nemici, per Bannon può diventare la realizzazione di un sogno di lunga data, l’applicazione dell’ideologia alt right alla Casa Bianca, senza dover contrattare con quelle figure che hanno tenuto a bada Trump nei suoi quattro anni a Pennsylvania Avenue. L’ideologia di Bannon da qualche anno è uscita dall’oblio solitamente riservato all’estremismo di destra. Ora non solo può diventare un discourse legittimo nell’arena politica, ma può anche diventare realtà. 


Il 3 ottobre c’è stato un evento storico: lo speaker repubblicano Kevin McCarthy è stato cacciato dalla sua posizione, tra l’altro raggiunta a fatica poco prima. Un segnale della guerra civile repubblicana. A capo della ribellione c’era il deputato Matt Gaetz, che la mattina dopo è andato ospite nella War Room di Bannon. Gaetz si proclama un “tribalista bannoniano”. I due si incontravano da settimane per pianificare la destituzione di McCarthy. Bannon è stato l’oscuro manovratore di un evento che, oltre ad aver paralizzato il Congresso, ha mostrato all’establishment del Partito repubblicano che la fronda è più forte di quanto non possa sembrare. E poi, facendo cadere McCarthy, i trumpiani sono riusciti a far eleggere uno speaker molto più malleabile, molto più inesperto, e molto più conservatore come Mike Johnson. “C’è stato un cambiamento tettonico qui nella capitale dell’impero”, ha detto Bannon ai suoi ascoltatori la mattina dopo. Ma l’opposizione interna al partito è solo una parte del ruolo che lo stratega porta avanti dal suo seminterrato a Capitol Hill. Negli ultimi anni ha incoraggiato i vari deputati alt right a portare davanti al Congresso proposte di legge che fossero più a destra possibile, anche solo per ottenere l’attenzione mediatica. Come ha riportato il New York Times, il consiglio che Bannon darebbe a questi politici è: “Proponi un emendamento. Fallo più oltraggioso possibile. E non ti preoccupare: se la Fox non se ne occupa, lo faremo noi, ne parleremo noi”. 

L’opportunismo egocentrico di Carlson e l’abilità strategica e comunicativa di Bannon li ritroviamo, a meno di un anno di distanza dal voto, come due volti della stessa medaglia di quello che ha messo in moto il trumpismo. Carlson, con le sue cravatte preppy e la faccia da bravo ragazzo, e Bannon, con la barba di due giorni e la scrivania incasinata, non possono essere più diversi. Carlson è cresciuto nei country club del quartiere bene di San Diego, mandato in un collegio a Ginevra e poi in un college fighetto del Connecticut. Bannon viene da una famiglia proletaria e democratica della Virginia, e lavorava in uno sfasciacarrozze per pagarsi Georgetown. Il primo usa il trumpismo per costruire la sua carriera, il secondo dà forma al trumpismo per realizzare la sua visione politica. Da una parte il megafono showman, dall’altra lo stratega ideologo, e in mezzo Trump, un veicolo motivato da interessi personali.