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Le quattro "R"

Linea verde sugli imballaggi usati: l'Ue detta un secondo regolamento

Antonio Massarutto

Il Parlamento europeo ha adottato un nuovo testo più morbido rispetto a quello licenziato dalla Commissione un anno fa. Le linee guida sono quattro parole: riutilizzo, riuso, riciclo, recupero

II Parlamento europeo ha approvato una versione del nuovo Regolamento sugli imballaggi e i rifiuti da imballaggio, decisamente più moderata rispetto al testo licenziato un anno fa dalla Commissione. Ora toccherà al cosiddetto “trilogo” – il dialogo a tre fra Commissione, Parlamento e Consiglio – giungere alla versione finale. Il Regolamento detta misure per prevenire i rifiuti da imballaggio, prolungandone la vita utile e favorendone il riuso e il riutilizzo, piuttosto che il riciclo o il recupero, in applicazione della cosiddetta “gerarchia dei rifiuti”.

Quattro parole il cui significato va ben compreso. Riutilizzo: ciascuno provvede a dotarsi di propri contenitori da riempire di prodotti venduti sfusi. Riuso: lo stesso involucro, restituito al venditore e convenientemente lavato e rietichettato, viene utilizzato nuovamente dal medesimo o da qualche altro operatore. Riciclo: il bene utilizzato viene raccolto separatamente e riprocessato per diventare un materiale nuovo simile a quello di origine, con cui realizzare nuove bottiglie, scatole e barattoli. Recupero: dai rifiuti, non meglio valorizzabili, si ottengono materiali di inferiore qualità, o al limite energia. Rigorosamente in quest’ordine di priorità, in nome dell’economia circolare e della lotta allo spreco.

Il Regolamento prevede obiettivi minimi da raggiungere (frazioni di prodotto venduto in contenitori a rendere, frazione di riciclato contenuto nei prodotti nuovi, riduzione del flusso di imballaggi conferiti come rifiuti); divieti (relativi in particolare a imballaggi “usa e getta” o all’impiego di sostanze dannose); misure di facilitazione (etichette, depositi cauzionali, obblighi di informare sul contenuto di certe sostanze, rendicontazione). Interessati al provvedimento sia il commercio al dettaglio sia la somministrazione diretta o per asporto da parte di bar, ristoranti e alberghi, ma anche il cosiddetto B2B – imballaggi utilizzati nelle fasi a monte del processo produttivo

Tra i correttivi apportati dal Parlamento, i più significativi sono due. Da un lato si allargano le maglie degli imballaggi monouso ammessi, in particolare per alimenti, quando ciò consente di proteggerli o porzionarli per evitare sprechi. Da un altro lato, si mantengono gli impegnativi target di riuso e riutilizzo, ma ne sono esenti specifici imballi, laddove se ne garantisca il riciclo almeno per l’85 per cento.

Lasciamo ai sostenitori dei diversi schieramenti di decidere se ciò rappresenti un passo indietro nella lunga marcia verso la transizione ecologica, o piuttosto un passo avanti verso la ragionevolezza. Qui preme sollevare invece la questione del metodo. Com’è che l’Ue giunge ad approvare norme che interferiscono in modo così plateale sulle libere scelte di produttori e consumatori? Cosa legittima a promuovere per legge una tecnologia, un materiale, un prodotto e a bocciarne altri?

Quello di libera iniziativa economica è un principio fondativo dell’Ue, che ha sempre cercato di evitare che gli aiuti di stato, sotto ogni forma, distorcessero la concorrenza. E quando sono in gioco superiori interessi generali – come il successo della transizione ecologica – in ogni caso si dovrebbe cercare di interferire il meno possibile, solo se strettamente necessario, e provando che il sacrificio (della concorrenza) è ben ripagato.

Una politica discrezionale che si arroga il diritto di “scegliere il vincitore” si legittima se consente evidenti benefici ambientali, che non verrebbero conseguiti lasciando fare al mercato.
E’ questo il caso? A stabilirlo dovrebbe essere il ponderoso “studio di impatto” che accompagna la proposta della Commissione. Che invece lascia alquanto perplessi: metodologicamente debole, pieno di forzature ad hoc, ma soprattutto – a dispetto delle affermazioni trionfali che vi si leggono – i numeri non sono proprio esaltanti. L’intero pacchetto consentirebbe, secondo la Commissione, il risparmio di 16 Mt di CO2 rispetto ad oggi (23 rispetto a un ipotetico futuro in cui si prevede che, non facendo nulla, i rifiuti da imballaggio continuerebbero ad aumentare)

Le diverse misure vengono analizzate come se fossero un tutt’uno, ma in realtà potrebbero benissimo esistere indipendentemente le une dalle altre – basterebbe questo errore “da matita rossa” a screditare l’intero studio. Scomponendo per quanto possibile le diverse misure, si scopre che quelle più estreme offrono un contributo ancora più modesto: meno dello 0,1 per cento delle emissioni totali dell’Ue. Insistere ciecamente sul monouso significa trasformare la gerarchia dei rifiuti – nata come principio-guida di ordine generale, e in quanto tale senz’altro condivisibile – in una sorta di ordalia. Il riuso si giustifica non perché fa bene all’ambiente, ma perché rispetta la gerarchia. Un ragionamento circolare quanto l’economia che si vorrebbe con esso promuovere.

Tutto ciò ricorda la Grande guerra e le sanguinose offensive per strappare al nemico pochi metri di terreno. Facciamo pure finta di credere che ogni passo in avanti verso Net Zero valga il sacrificio. Non è affatto detto però che ciò valga per ogni singola e specifica misura. Bene quindi prevedere – come fa il testo del Parlamento – che ulteriori deroghe si possano introdurre se studi specifici mostrano la preferibilità di soluzioni alternative. Abbiamo assistito a una commedia delle parti, in cui il poliziotto buono (il Parlamento) interviene per limare gli eccessi del poliziotto cattivo, e il povero inquisito è costretto pure a tirare un sospiro di sollievo per avere scampato guai peggiori.

Inutile agitare lo spauracchio delle isole di plastica in mezzo all’oceano per far sentire in colpa i parlamentari: l’alternativa non è tra riuso e abbandono selvaggio, ma tra riuso e riciclo, specie in un paese come l’Italia che nel riciclo ha raggiunto livelli di eccellenza. Quel riciclo che le stesse Ong ambientaliste consideravano un tempo l’emblema simbolico della transizione viene ora sdegnato come qualcosa di simile al green washing. Proprio ora che l’industria ha imparato a riciclare e pure a farlo bene, proprio ora che il riciclo è diventato un business: che abbiano ragione quanti sostengono che il nemico dell’estremismo green non è tanto il cambiamento climatico, ma l’industria e il capitalismo in quanto tali?