La chiesa di Vahramashen in Armenia, completata nell’XI secolo (Olycom) 

La “Gerusalemme del Caucaso”

Povera Armenia, sorella orfana dell'Europa e sentinella di civiltà

Giulio Meotti

Non bastava il genocidio turco che l’ha quasi cancellata. Ora chi è ossessionato dal “resto della spada” vuole finire il lavoro. Un popolo ancora una volta martire e in esilio

Abbiamo finalmente capito che era nostra sorella dell’est che stava morendo e che è morta perché era nostra sorella e per il crimine di aver condiviso i nostri sentimenti, di aver amato ciò che amiamo, pensato ciò che pensiamo, creduto ciò in cui crediamo, gustato come noi la saggezza, la poesia, le arti. La sua storia si riassume in uno sforzo secolare per preservare il patrimonio intellettuale e morale della Grecia e di Roma. Potente, l’Armenia la difese con le sue armi e le sue leggi; sconfitta, ridotta in schiavitù, ne conservò il culto nel cuore”.

Così scriveva Anatole France. E un italiano in visita in Armenia non può fare a meno di essere profondamente toccato da un paese che ha preservato la propria identità per venti secoli. La visita ai monasteri è uno dei momenti salienti di qualunque viaggio in Armenia. Ma c’è qualcosa di fatiscente nel paese, che trasuda ex Repubblica sovietica. L’architettura, le auto, il grigiore, tutto la richiama. Il russo è più parlato dell’inglese. All’inizio degli anni Novanta, quando scoppiò la prima guerra del Nagorno Karabakh, la giovane Armenia indipendente non aveva elettricità, se non per due ore al giorno. Bruciavano le foreste per riscaldarsi. Il pil pro capite armeno è di quattromila dollari, contro i quarantamila di un paese europeo.

Un paese piccolo, piccolissimo. Meno di trentamila chilometri quadrati per tre milioni di abitanti. Un secolo sul ciglio della morte, l’Armenia è sopravvissuta anche se non vive ancora in pace con il suo passato e i suoi vicini. Un popolo sovraccarico di memoria. Una terra di pietra, che la leggenda vuole che, dopo la creazione del mondo, Dio avrebbe scelto come luogo per riversare le rocce in eccesso. Un popolo di commercianti poliglotti, di viaggiatori, di poeti, di mistici e di contadini, che oggi abita un decimo dell’Armenia storica. Un popolo sempre sull’orlo della sparizione e la cui chiesa, durante le purghe sovietiche, ha pagato un prezzo pesante: l’assassinio del suo Catholicos Khoren I, ucciso nel 1938 nel sonno dal Kgb. In tutto, 64 sacerdoti armeni giustiziati solo nel 1938. Chiesa e nazione formano una coppia indivisibile.

In Italia la causa armena è “per pochi”, per usare un eufemismo. Non tira in televisione. I giornali non se ne occupano, se non quando (come in un rito stanco come per la Shoah) c’è da commemorare il genocidio. Si contano su una mano gli intellettuali e gli scrittori coinvolti in questa causa che “non rende”, in termini mediatici e politici. Che vuoi che siano tre milioni di cristiani sopravvissuti a un genocidio in balia delle onde di un oceano islamico? Una nota a piè di pagina della storia e dello choc di civiltà, che noi europei codardamente neghiamo. Ma la caduta d’un’altra parte dell’Armenia esalterebbe quelli che non si sono dimenticati della loro sconfitta alla battaglia di Vienna.

Gli armeni hanno la forza interiore delle anime forti, la resistenza intatta di chi sa, per dirla con Ernest Renan, che “una nazione è prima di tutto un principio spirituale”. Ricordano la  definizione del vero soldato che diede Chesterton: “Non combatte perché odia chi gli sta davanti, ma perché ama chi gli sta dietro”. Una forte coesione familiare ha permesso all’Armenia di sopravvivere per secoli anche in assenza di uno stato. Un popolo mobilitato e non assimilato alla globalizzazione multiculturale delle “società liquide”. Ma per dirla con Franz Olivier Giesbert, “oggi va più di moda un imam a occidente che un cristiano a oriente”.

Donne, uomini, anziani che tirano fuori i vecchi fucili usati nella guerra del 1994, l’unica cosa che li separa da un nuovo sfollamento di massa, come quello che abbiamo visto in diretta mondiale nei giorni scorsi dall’Artsakh, come gli armeni chiamano il Nagorno Karabakh. Fra i caduti, molti di 40 e 50 anni, riservisti e volontari, anche professori universitari. Una guerra di popolo, come quella ucraina. E quando la guerra è di popolo, le scene della disfatta sono tremende.

L’anziana che dice addio al villaggio, l’uomo che bacia la casa, un altro che salva i peluche dei figli prima di dare fuoco a tutto, un preside che brucia la propria scuola, chi porta via le tombe, i ragazzi che formano un cerchio e intonano canti antichi mentre dicono addio alle chiese… L’armeno è il “popolo fedele”.

Prima che noi diventassimo cristiani, prima ancora di Costantino, gli armeni lo erano già. Separata dalle Chiese greca e latina dopo il Concilio di Calcedonia (451), dotata di una Chiesa autocefala (VI secolo) rappresentata dal catholicos, che deve la sua unità a San Gregorio (detto “l’Illuminatore”) e al monaco Mesrop Mashtots – il primo all’origine della conversione, nel 301, del re Tiridate IV, alleato di Roma contro i Persiani prima del regno di Costantino – l’Armenia sa chi è. Gli armeni sanno da dove vengono. E questo popolo è circondato dall’islam.

Gli armeni rappresentano uno dei popoli più antichi e la “Mappa Mundi Babilonese” già li nominava (assieme agli ebrei, gli armeni sono gli unici che ancora esistono di quella mappa). Il re armeno Abgar V di Edessa scrisse una lettera a Gesù e aveva ricevuto l’immagine del Signore sul mandylion, per poi inviare lettere all’imperatore Tiberio, al re Narseh d’Assiria, al re Ardashir di Persia, in modo che anche loro accettassero Gesù. Fu l’imperatore d’Oriente Eraclio l’armeno a riportare nel 630 a Gerusalemme la croce che era stata rubata dai persiani. Da secoli la cappella di Santa Elena a Gerusalemme, luogo del ritrovamento della croce, è affidata agli armeni.

E’ attraverso il suo incrollabile attaccamento al cristianesimo che l’Armenia è riuscita a mantenere la sua identità anche se è stata privata, per 1.500 anni, della sua indipendenza e della sua struttura statuale. Gli armeni, durante le crociate, furono gli alleati naturali degli occidentali per prendere la tomba di Cristo.

E’ il popolo citato da Erodoto (V secolo a.C.) e da Senofonte (IV secolo a.C.). Troviamo il racconto delle guerre che dovette subire dai suoi potenti vicini in Tacito e Svetonio, come la cerimonia che vide a Roma il suo re Tiridate ricevere la corona dalle mani di Nerone. I Sassanidi tentarono di imporgli il culto zoroastriano per un secolo. Un popolo che si è ritrovato per 1.500 anni nel corridoio delle invasioni. L’Armenia ha visto passare gli arabi, i bizantini, i mongoli, gli ottomani. La sua popolazione ha dovuto più volte scegliere l’esilio e la dispersione. Tuttavia, non ha mai smesso di essere una nazione.

L’Armenia è una fortezza montuosa, al crocevia di oriente e occidente, del mondo slavo e del Vicino Oriente, a metà strada tra il Mediterraneo e l’Oceano Indiano, destinata a essere un teatro per gli scontri dei grandi imperi come un cuscinetto per le grandi invasioni.

Il 24 aprile 1915 iniziò lo sterminio di 1,5 milioni di armeni nell’impero ottomano, organizzato dai Giovani Turchi. Ma i loro successori al potere nel 2023 ad Ankara e Baku, in Azerbaijan, non hanno rinunciato a “finire il lavoro”. Come il console americano ad Aleppo Jackson scrisse all’epoca in un telegramma, “è senza dubbio un piano attentamente pianificato per estinguere completamente la razza armena”.

Per il solo motivo della loro nascita (ma anche della loro fede), 1,5 milioni di uomini, donne e bambini armeni sono stati sradicati dal 1915 in poi dalle regioni in cui avevano abitato per due millenni: su 1,8 milioni – armeni che vivevano nell’Anatolia orientale in 1914 – dieci anni dopo ne erano rimasti solo 300 mila. O si convertivano all’islam oppure vivevano nascosti (a volte anche sotto il tetto dei “giusti” turchi). Deportati su “strade della morte” verso sud, verso Aleppo, verso est (l’attuale Iraq). Ma l’obiettivo dei padroni di Istanbul non era solo quello di espellerli, di “ripulire” lo spazio turco dalla loro presenza, ma anche di eliminarli fisicamente. Ordini scritti erano stati dati in tal senso e la loro applicazione era “esemplare”.

I soldati e i gendarmi ottomani concedevano alle famiglie armene qualche ora per radunarsi all’uscita delle città o villaggio e formare colonne pronte a partire per essere “spostate”. Gli uomini furono separati dai gruppi da giustiziare, mentre le donne, i bambini e gli anziani, trattati come mandrie, per avanzare sotto la sorveglianza dei soldati turchi a cavallo. Una scomparsa quasi totale, una dispersione massiccia. Per fame. Per sete. Per malattie. I cadaveri gettati in burroni e fiumi. A volte i sopravvissuti strisciavano fuori, finiti con una pallottola o un colpo di baionetta. Nessuna sepoltura. A volte le carovane venivano attaccate da tribù curde o banditi ingusci o ceceni ai quali i turchi consegnavano giovani ragazze armene. Dopo essere state stuprate, venivano vendute nei mercati o  agli harem di qualche governatore turco.

Gli artefici del genocidio si festeggiano oggi nelle scuole come nelle strade della Turchia di Erdogan, che vorrebbe piazzare le tende del Sultano nel giardino della civiltà armena: Talaat Pasha ha diritto al suo viale ad Ankara e una scuola porta il suo nome a Istanbul. E ora anche una strada a Stepanakert, la città armena del Nagorno Karabakh da cui sono scappati in 70 mila.

Dopo il crollo dell’Unione sovietica nel 1991, il Nagorno Karabakh, dove ci sono alcune delle chiese armene più antiche, non ha mai fatto parte dell’Azerbaijan, e i cittadini della regione autonoma avevano proclamato la loro indipendenza con un referendum. La popolazione era per il 97-99 per cento di etnia armena e il popolo decise di uscire dall’Unione sovietica come uno stato indipendente, come tanti altri stati che ne sono usciti, come ha fatto l’Azerbaijan poco dopo. Già dal 1988 e poi dopo il crollo dell’Unione sovietica gli azeri (che sono i turchi del Caucaso) hanno cominciato ad ammazzare gli armeni a Sumgait e in Nakhichevan dove hanno anche distrutto tutti i monumenti armeni e un intero cimitero con oltre diecimila croci armene finemente scolpite (khatchkar). Andrej Sacharov scrisse lettere appassionate in difesa degli armeni.

E come potevano dormire sonni tranquilli vedendo il “Museo dei trofei” che a Baku gli Aliyev hanno inaugurato dopo la guerra del 2020? Su cinque ettari della capitale dell’Azerbaigian, il parco espone gli elmi dei soldati armeni caduti durante l’ultima guerra. Figure in cera a grandezza naturale che ritraggono armeni morenti, su un letto d’ospedale, in un veicolo blindato, con tratti bestiali, volti emaciati, occhi fuori dalle orbite.

E ora che è caduto il Nagorno Karabakh, trema Yerevan. Racconta Le Monde: “Dopo il Nagorno Karabakh, l’Armenia è convinta di essere il prossimo obiettivo di Baku. I segnali d’allarme si moltiplicano. L’Azerbaigian si è detto pronto a ottenere con la forza il corridoio Zangezur per avere continuità territoriale con la Turchia. Baku inoltre afferma regolarmente che la regione armena di Syunik, nel sud-est del Paese, ‘è Azerbaigian’, facendo temere un’offensiva. A Goris gli abitanti hanno già fatto le valigie e sono pronti a partire. La grande offensiva lanciata dall’Azerbaigian nel settembre 2022 ha suscitato paura. In due giorni sono stati attaccati più di trenta città e villaggi armeni. Più di 200 soldati armeni sono stati uccisi. Le mappe distribuite sui media azeri mostrano l’Armenia tagliata a metà, con l’intero sud del paese nei colori dell’Azerbaigian. L’analista politico Benyamin Poghosyan è convinto che per l’Armenia ‘il peggio sia appena iniziato’”.

A sentire il capo dello stato turco parlare degli armeni come dei “resti della spada”, si dubita che abbiano finito. Sentendo il suo vassallo azero Ilham Aliyev affermare il suo desiderio di “cacciarli via come cani” dall’Artsakh o anche dal sud dell’attuale Armenia (Syunik), viene da dubitare che il genocidio sia una pagina di storia e basta. A vedere anche la sua politica di distruzione delle tracce della civiltà armena nei territori conquistati durante la “guerra dei 44 giorni” (settembre-novembre 2020), viene da dubitare: i turchi non fecero la stessa cosa tra il 1915 e il 1922, distruggendo 1.036 chiese e monasteri e 691 istituzioni religiose?

Un secolo fa il ritorno dei turchi dai Balcani, dopo le guerre perdute del 1912-1913, sconvolse la demografia locale. Si trattava di eliminarli fisicamente: nei vilayets (distretti) di Sivas, Trebisonda, Diyarbekir, Baghech, Adrianopoli, Erzurum, Van e Kharpert viene uccisa tra il 94 e il 99,8 per cento della popolazione armena. Centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini… Documentato dallo storico Raymond Kévorkian, il destino di Mariam Kokmazian è emblematico di quello di centinaia di migliaia di famiglie armene durante il genocidio. Nell’aprile 1915, l’esercito ottomano arrestò e uccise un centinaio di notabili del suo villaggio sulla costa del Mar Nero, Kirassoun, dove vivevano 340 famiglie armene. Vengono allestiti quattro convogli di deportazione. La piccola Mariam fa parte del quarto e ultimo convoglio, che comprende 1.200 persone. Pochi chilometri dopo la partenza, a Iki Su, furono trascinati fuori 500 uomini, tutti fucilati a Eyriboli. Un centinaio di chilometri più avanti, i banditi curdi attaccano la carovana e decine di donne vengono rapite e violentate. Quando il gruppo arriva a Kurutchay, dopo ventotto giorni di estenuante cammino, rimangono solo 460 donne e bambini.

E niente uomini: gli ultimi sono stati bruciati vivi da un gruppo di ceceni a Kavaklik. Ad Agn, tappa finale del convoglio, a 450 chilometri da Kirassoun, sono rimasti solo una quarantina di sopravvissuti. Tra loro Mariam, rinchiusa in un orfanotrofio da cui è fuggita in tempo prima di essere avvelenata e gettata nell’Eufrate, come le altre… 

In Italia è appena uscito per Guerini un libro che toglie il fiato, “Giustificare il genocidio” di Stefan Ihrig, sui legami fra genocidio armeno ed ebraico. Ma c’è un libro nel libro di Ihrig. Si tratta di “Armenia ed Europa” di Johannes Lepsius. Fu lui a rendere noti in Europa i primi massacri armeni. Lepsius aveva lavorato nella comunità tedesca di Gerusalemme come pastore protestante. Tornato in Germania, colpito dai resoconti dei massacri armeni del 1895 (pre genocidio), Lepsius decise di recarsi nell’Impero ottomano per comprendere cosa fosse accaduto. Nel libro di Lepsius si legge che “erano morti 88.000 armeni, distrutte 645 chiese e monasteri, 560 villaggi si erano convertiti all’Islam e 330 chiese erano state trasformate in moschee. La macellazione di massa, il rapimento e l’islamizzazione forzata, oltre alla fame, allo sforzo sovrumano e ad altre privazioni, trasformarono le carovane in un miserabile ammasso di donne, bambini e vecchi seminudi, malati e morenti che, una volta giunti a destinazione, non riuscivano a trovare nulla con cui sostenersi”.

Cent’anni dopo il genocidio degli armeni in Turchia, il danno inflitto a questo popolo ha un peso eterno. Se non ci fosse stato il genocidio, con una popolazione di due milioni di armeni nel 1915, senza contare le due guerre e 300 mila armeni uccisi durante i massacri Hamidiani del 1909, oggi avremmo potuto avere 3,5-5,5 milioni di armeni in Turchia. Se non ci fossero stati gli altri massacri ci sarebbero potuti essere 4-6,2 milioni di armeni. La Turchia oggi avrebbe potuto avere più armeni della Repubblica d’Armenia.

Ma i turchi ci hanno visto giusto. Gli armeni in Turchia oggi sono 70 mila, concentrati a Istanbul. La Chiesa Armena, rinata dalle ceneri, deve rievangelizzare solo con 900 preti. Gli armeni non sono in grado di difendere l’Armenia e l’Artsakh e non possono reclamare dalla Turchia le terre dell’Anatolia previste dal trattato di Sèvres perché non potrebbero popolarle. La demografia è implacabile. I turchi hanno fatto bene i calcoli.

Un popolo con pochi amici, tranne i francesi. E infatti i pochi che parlano sono gli intellettuali francesi, come Pascal Bruckner, che scrive: “Ricordiamo che lo stesso Aliev aveva pubblicamente proclamato il 10 novembre 2020 a Baku: ‘Ho detto che avremmo cacciato gli armeni dalle nostre terre come cani e lo abbiamo fatto’. La metafora del cane è interessante perché questo conflitto avviene all’ombra del genocidio del 1915, mai riconosciuto da Ankara, e che provocò la morte di 1.500.000 armeni. Ciò che accadde più di un secolo fa si può ripetere oggi, i discendenti dei carnefici non hanno mai mostrato il minimo rimorso. Dal 5 al 14 settembre 1915, la marina francese, disobbedendo agli ordini, salvò 4.000 armeni assediati a Musa Dagg dalla Quarta Armata ottomana. Questo atto eroico suggellò la reputazione della Francia in Armenia e tra i cristiani orientali. Calpesteremo incautamente l’onore dei soccorritori di Musah Dagg?”.

Nessuno oggi si è mosso per gli armeni. E in Armenia il dopoguerra sembra sempre un anteguerra. E’ come se il genocidio del 1915 non fosse avvenuto e la lunga via della croce di questo popolo continuasse per sempre. Questa isola democratica e cristiana nel Caucaso è rimasta sola: abbandonata dai russi cinici e affaccendati altrove, lontana dai radar dell’America, inservibile all’Europa nel grande gioco energetico, la piccola “Gerusalemme del Caucaso” attende come in un supplizio cinese un altro giro della storia. “Stanno distruggendo case, santuari armeni e il nostro patrimonio culturale, se la situazione continua così, non rimarranno tracce di armeni lì”, denunciava due anni fa Andreas Taadyan, rettore della cattedrale di Cristo San Salvatore a Shusha. Rettore senza chiesa, perché la cattedrale oggi è nelle mani degli azeri. In passato, e fino al 1920, c’erano molte chiese a Shusha. C’erano tre o quattro sacerdoti per ogni chiesa. La città era come Gerusalemme per il numero di chiese e sacerdoti. E fu visitata da Osip Mandel’stam, il grande poeta ucciso nel Gulag, all’indomani di un pogrom antiarmeno.

Oggi a Yerevan c’è un luogo della Repubblica d’Armenia tenuto nella massima segretezza. Appena illuminato. Sorvegliato giorno e notte. Conosciuto da pochissime persone. Un labirinto di corridoi scavati nella roccia progettato durante la Guerra Fredda, quando incombeva la paura di un conflitto nucleare. Queste grotte simili a bunker non sono mai state utilizzate per ospitare uomini e donne minacciati dall’atomica americana, ma hanno trovato, negli ultimi due anni, un uso senza precedenti: ospitano parte dei tesori armeni del Nagorno-Karabakh. Nel bunker ci sono molte “khachkar”, le stele simbolo dell’identità armena. Rappresentano l’albero della vita e la sua vittoria sulla morte. Opere d’arte, le più antiche delle quali risalgono al IX secolo. Vi hanno portato in salvo anche i frammenti di affreschi parietali delle due chiese medievali di Dadivank, anche questo caduto in mani azere e fondato da un allievo dell’apostolo Taddeo.

C’è una immagine simbolo di quest’ultimo lugubre passaggio per gli armeni: Amalia, nata nel 1920 nel Nagorno Karabakh, allora Unione sovietica, quando non esistevano né l’Armenia né l’Azerbaijan, e oggi esule a Yerevan. Al mattino, arrivava sempre per prima al cimitero. Prendeva due candele. Una per suo marito, un’altra per suo figlio. Occhi troppo grandi per il suo viso, sopracciglia tipiche degli armeni che sembrano disegni a carboncino. Da quando il Dio cristiano si è stabilito qui nel IV secolo, si sono riversati in tanti per rimettere in riga questi armeni dalla testa dura. Come se la terra armena li facesse impazzire.  

Gli armeni sono la sentinella dell’Europa. C’è sempre un cielo carico di nuvole nere sopra di loro e da cui piovono bombe, odio, volontà di sterminio e di sottomissione, abbandono. Ma gli armeni ci sono ancora. Verranno di nuovo. Il ritorno dei sopravvissuti e dei loro discendenti ha richiesto molto tempo. Ma l’hanno fatto. Lo fanno sempre.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.