Il reset con la Cina voluto da Biden dà i suoi frutti. Il Gop lo critica

La quasi-tregua commerciale Washington-Pechino

Giulia Pompili

Il viaggio della segretaria al Commercio Gina Raimondo dopo quelli di Blinken e Yellen. La sfiducia in Pechino e la Cina che diventa centrale nella campagna per la leadership del Partito repubblicano

Uninvestable”, non investibile: è una parola che circola da tempo quando si parla di Repubblica popolare cinese, ma adesso è arrivata ai massimi livelli dell’Amministrazione americana. Si conclude oggi la visita di quattro giorni della segretaria al Commercio statunitense, Gina Raimondo, a Pechino, ed è stata proprio lei, parlando con i giornalisti, a dire che “sempre più spesso sento dire dalle imprese che la Cina non è investibile perché è diventata troppo rischiosa”. Non c’è soltanto il rallentamento dell’economia cinese, il collasso del settore immobiliare, ma per gli investitori americani il rischio riguarda la certezza del diritto, le detenzioni arbitrarie, la legge sullo spionaggio dalle applicazioni sempre più ampie e poi regole sulla privacy, sul diritto d’autore e sui brevetti a dir poco fumose. Quella di Raimondo è la terza missione di un alto funzionario dell’Amministrazione di Joe Biden in Cina, e segue la visita del segretario di stato Antony Blinken e quella, qualche settimana fa, della segretaria al Tesoro Janet Yellen. Come i suoi predecessori, Raimondo ha incontrato diversi funzionari della leadership cinese – dal premier Li Qiang al ministro del Commercio Wang Wentao, dal capo delle politiche economiche He Lifeng al ministro della cultura e del turismo Hu Heping – e a tutti ha ripetuto le rassicurazioni fatte in precedenza anche da Blinken e Yellen alla Cina: non vogliamo il decoupling, vogliamo le regole.

“Non possiamo avere tutte le nostre uova nello stesso paniere”, ha detto Raimondo, come a dire: non conviene nemmeno a noi staccarci completamente dalla Cina, ma dobbiamo diversificare, come ha spiegato spesso anche il consigliere alla Sicurezza nazionale Jake Sullivan. Eppure l’attuale politica di Biden su Pechino è molto chiara: le limitazioni all’export di materiale tecnologico, il divieto di investimenti su alcuni settori precisi e sensibili, le agevolazioni fiscali per chi sposta la catena produttiva fuori dalla Cina sono state criticate dalla leadership di Pechino, che ha risposto con misure simili, bloccando per esempio le importazioni dei prodotti di Micron, colosso americano produttore di chip, e hanno usato una serie di tattiche intimidatorie come irruzioni e perquisizioni nelle aziende americane in Cina. 

 

 
La segretaria al Commercio Gina Raimondo ha detto ieri che la sua visita è servita alla riattivazione del dialogo tra le prime due economie del mondo, le cui relazioni da mesi ormai sono ai minimi. L’azione diplomatica di Joe Biden sta avendo dei risultati: la Casa Bianca prende decisioni politiche di derisking e allo stesso tempo cerca il dialogo. Ma tutto ha un prezzo. I repubblicani americani, in piena campagna per le primarie, fanno a gara a chi risulta più anti cinese. E Pechino è un pezzo della strategia politica – forse il più importante – del post trumpismo. Per una parte del Partito repubblicano la Russia e la guerra d’invasione dell’Ucraina sono problemi da lasciare agli europei, e spingono per un completo spostamento dell’asse d’interesse strategico americano nell’Indo-Pacifico in funzione anti cinese (facendo però finta di non vedere la vicinanza tra Putin e Xi: non a caso ieri è stata confermata la visita del leader del Cremlino a Pechino in ottobre). Per un lungo primo periodo dell’Amministrazione Biden sembrava che la Cina fosse l’unico argomento in cui a Washington ci fosse un consenso bipartisan, ma  da qualche mese tutto è cambiato: già a maggio su Foreign Policy la nota commentatrice conservatrice Danielle Pletka dell’American Enterprise Institute, ex anti Trump ora possibilista sul ritorno del tycoon, scriveva che il reset che Biden vuole attuare nelle relazioni con la Cina è destinato a fallire.

 

 

Lo stesso si sente dire in ambienti repubblicani sulle visite dei funzionari dell’Amministrazione in Cina: sono loro a muoversi e non possono scegliere chi incontrare, decide Pechino, eppure nessuno dei funzionari della leadership di Xi Jinping ha ricambiato la visita. La scorsa settimana Josh Rogin sul Washington Post scriveva che i candidati repubblicani fanno a gara per essere i più anti cinesi, ma nessuno di loro, governatore della Florida Ron DeSanctis compreso, fino a qualche tempo fa aveva preso posizione su Pechino, insomma: opportunismo e politica interna. Ma è anche sulla Cina, e sul grande reset voluto da Biden, che si guarda alle prossime elezioni americane.

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.