Voto senza rivali

L'ultima incoronazione di Hun Sen in Cambogia

Massimo Morello

Il premier cambogiano dichiara la vittoria all'elezione di domenica, senza di fatto rivali perché l'unico partito di opposizione è stato silenziato. Ora prepara la successione al figlio, Hun Manet (che non dispiace agli americani), realizzando il suo sogno di creare una dinastia

"Nessuno può battere Hun Sen", aveva assicurato il primo ministro cambogiano Hun Sen, alla vigilia delle elezioni. E il 23 luglio le ha vinte “con una maggioranza schiacciante” com’è stato affermato sin dai primi exit poll. Vittoria ineluttabile, considerando che il Cambodian People's Party (Cpp), il partito di Hun Sen, non aveva reali concorrenti se non 17 partitini pressoché sconosciuti, mentre il maggior partito d’opposizione, il “Candlelight Party” è stato messo fuori gioco per un cavillo legale, tutti i rappresentanti dell’opposizione sono in prigione o in esilio. Alcuni sono spariti. Tra marzo e aprile i membri del Candlelight sono state vittime di aggressioni da parte di uomini mascherati e nella settimana precedente le elezioni, secondo Human Rights Watch, il governo ha intensificato la repressione.

In realtà, quando fece quell’affermazione, Hun Sen, oggi settantenne, era alla vigilia delle elezioni del 2008. Ma avrebbe potuto essere prima di ogni elezione, dal 1985 in poi. Se poi ci si riferisce al suo partito, in questo caso il record di vittorie ininterrotte va fatto risalire al 1979, alle prime elezioni dopo la caduta del regime dei khmer rossi in seguito all’invasione vietnamita della Cambogia. Quell’anno rientra in Cambogia anche Hun Sen. Ha 27 anni e viene nominato ministro degli Esteri. “Era ambizioso, capace, infido e, come dimostrarono gli eventi, estremamente spietato”, scrive Philip Short, il biografo di Pol Pot.

Nato nel 1952, a 18 anni, quando il conflitto vietnamita si sta estendendo a tutta l’area e gli americani invadono la Cambogia per distruggere i santuari vietcong, si schiera con il PCK, il partito comunista cambogiano. Diviene uno di coloro che re Sihanouk avrebbe chiamato khmer rossi. Nel 1975 Hun Sen è vicecomandante di reggimento e partecipa alla battaglia per la conquista di Phnom Penh. Inizia così un incubo che per velocità letale e potenza distruttiva ha un posto unico e speciale tra i peggiori massacri e genocidi dello scorso secolo. Circa tre milioni di persone sono costrette ad abbandonare le città per andare a lavorare nei campi. Decine di migliaia scompaiono nei campi di sterminio. Per i cambogiani quel periodo non ha un nome: ci si riferisce ad esso come “quei 3 anni, 8 mesi, 20 giorni”. Di quel periodo Hun Sen ha vissuti solo due anni. Nell’estate del 1977, infatti, è tra i primi comandanti khmer che si consegnano a vietnamiti. Questi, esasperati dalle incursioni cambogiane, preoccupati per l’influenza cinese sul loro vicino, ormai liberi sul fronte interno, stavano organizzando l’invasione. Per Hun Sen inizia un periodo di formazione politica sotto la guida di Le Duc Tho, uno dei protagonisti principali della liberazione del Vietnam, tra i fondatori del movimento vietminh con Ho Chi Min, artefice degli accordi di Parigi che condussero alla fine della guerra.

"La forza di Hun Sen, il suo potere, derivano da quel periodo. Con i duri dell’esercito nordvietnamita ha imparato il rigore, il concetto del centralismo", disse al Foglio Claudio Bussolino, un ex quadro del Partito comunista italiano, uomo di straordinaria cultura, che ha vissuto in Cambogia dal gennaio 1979, quando arrivò a Phnom Penh al seguito delle truppe vietnamite. "Hun Sen è figlio di contadini, parla come loro, pensa come loro. E' un 'uomo dal cuore dritto'", disse Bussolino usando un’espressione khmer che esprime il concetto del nostro “uomo d’onore”.

I risultati sono indiscutibili. Grazie alla capacità di Hun Sen e del suo partito di mantenere la pace e la stabilità, nonché ai miliardi di dollari degli investimenti esteri – attratti da una politica di facilitazioni fiscali e dalla possibilità di detenere il totale controllo della società - quello che era uno dei più poveri paesi al mondo ha raggiunto lo stato di “basso-medio reddito” e per il 2030 dovrebbe raggiungere quello del “medio reddito”. Dal 1998 al 2019 l’economia è cresciuta alla media del 7,7 per cento e gli stipendi del settore tessile, motore della crescita, negli ultimi dieci anni sono aumentati di due volte e mezzo. Il governo, inoltre, ha contrastato l’emergenza Covid con grande efficacia, emergendone addirittura rafforzato.

Forse è per questo che buona parte della popolazione continua a credere in Hun Sen. Lo dimostra un altro risultato delle elezioni: l’affluenza al voto. Secondo i dati ufficiali ha votato l’84 per cento dei circa dieci milioni di aventi diritto. Per quanto i dati possano essere falsati e nonostante le nuove norme per scoraggiare ogni forma di astensionismo, sembra che i cambogiani, continuino a credere che Hun Sen sia un uomo d’onore

Al tempo stesso, però, sono aumentate in maniera esponenziale le differenze tra ricchi e poveri, la deforestazione e lo sfruttamento del territorio hanno raggiunto livelli critici, mentre Hun Sen, ormai l’uomo più ricco del paese, i suoi oligarchi e gli investitori stranieri stanno requisendo la Cambogia. Si è costituito un sistema di potere "feudale e clanistico" basato su intimidazione e corruzione.

In nome di questo sistema, il significato reale delle elezioni è assicurare un passaggio generazionale: molti dei ministri e degli alti ranghi del Ccp, ormai alla vigilia del ritiro, vogliono che il potere resti “in famiglia” e hanno candidato i loro figli. Mentre le figlie sono state destinate ad allargare le famiglie.

"Se sarò vivo continuerò a candidami sino a novant’anni", aveva pure detto Hun Sen prima delle elezioni del 2008. Una promessa, questa, che non sarà mantenuta perché anche lui ha deciso di cedere il potere a suo figlio, Hun Manet, 45 anni. Il suo sogno, come per i sovrani delle antiche dinastie khmer è di dar vita a una dinastia.

Aveva cominciato a pensarci già molto tempo fa, programmando per il figlio un curriculum che comprende il diploma all’accademia militare di West Point, il master in Economia all’università di NewYork e il dottorato a quella di Bristol. Nel frattempo, Hun Manet ha servito nelle unità cambogiane dell’antiterrorismo sino a diventare capo di stato maggiore. Per molti osservatori tutti questi titoli potrebbero far sperare in un cambio di regime. E gli analisti statunitensi puntano su di lui, proprio per la sua formazione americana, per spostare la Cambogia nel fronte anticinese.

Ma finanziamenti di Pechino sono quelli che continuano ad assicurare il potere. E poi, come ha scritto Lee Morgenbesser, autore del saggio “The Rise of Sophisticated Authoritarianism in Southeast Asia”, un’educazione occidentale non significa necessariamente un governante moderato.

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