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Sunak vuole salvarsi dalla Brexit con un po' di europeismo 

Stefano Cingolani

La fuga dei capitali e dei capitalisti dalla City è il più eclatante effetto dell'uscita della Gran Bretagna dall'Ue. Cosa ci dicono i numeri

Il Regno Unito cerca di uscire dalla tenaglia ideologica della Brexit e di sanare almeno in parte le ferite inferte non solo alla sua economia, ma al paese intero, perché la frustata nazional-populista ha contribuito a corrompere e far arretrare quello che Hegel aveva chiamato “lo spirito di un popolo”. E’ uno sforzo che va accompagnato e apprezzato, come ha fatto il Fondo monetario internazionale rivedendo al rialzo le proprie stime. “La sola funzione delle previsioni economiche è far sembrare rispettabile l’astrologia”, amava dire John Kenneth Galbraith, quindi prendiamo con le pinze anche il Fmi che nel giro di pochi mesi ha cambiato completamente idea sulla economia del Regno Unito: a gennaio vedeva una recessione dello 0,6 per cento, a marzo dello 0,3 e adesso scorge all’orizzonte di fine anno una crescita: per ora dello 0,4 per cento appena, ma se continua così nel 2024 raggiungerà un punto percentuale. Il segno più ha fatto stappare champagne a Downing Street. Il cancelliere dello Scacchiere Jeremy Hunt ha abbandonato ogni aplomb britannico (confermando che si tratta di un luogo comune): “Siamo più forti della Germania, della Francia e dell’Italia”, ha detto. Il suo giubilo è esagerato, anche se comprensibile, il pragmatismo del quale ha dato prova insieme al primo ministro Rishi Sunak sta dando buoni risultati: hanno gettato alle ortiche le asprezze ideologiche alla Nigel Farage che adesso si dichiara anche lui pentito, le follie aquilonari alla Boris Johnson, le infatuazioni inattuali alla Liz Truss e si sono rimboccati le maniche per sistemare le finanze pubbliche, domare l’inflazione, ridare fiducia. E’ presto per dire se ci sono riusciti, tuttavia hanno portato una boccata d’ossigeno all’insegna della ragione. Anche se per essere realisti fino in fondo, dovrebbero riconoscere che ci vorrà tempo per rimuovere le macerie. 

Lasciamo stare la logica del sorpasso. Perché se vogliamo gettare uno sguardo un po’ più in là le cose appaiono meno brillanti. Il prodotto lordo britannico è ancora dello 0,8 per cento inferiore a quello pre pandemia, mentre l’Eurozona in media è più ricca del 2,4 per cento. Pwc (PricewaterhouseCoopers) la seconda società di consulenza al mondo, nel suo rapporto sui trend del private equity sottolinea che la disruption provocata dalla Brexit non è ancora finita. Il Regno Unito e l’Irlanda hanno perso il loro primato nelle acquisizioni di imprese, cedendo lo scettro alla Francia. L’Office for Budget Responsibility stima che la Brexit ha ridotto del 4 per cento il prodotto lordo del Regno Unito. Il Financial Times calcola che si perdono100 miliardi di sterline di prodotto mentre scendono di 40 miliardi le entrate annuali del Tesoro.

Kristalina Georgieva direttore operativo del Fondo monetario internazionale, ha detto in conferenza stampa che il governo Sunak è sul giusto sentiero fugando le preoccupazioni sulla tenuta del paese suscitate a Washington dalla sconsiderata Truss-nomics. Secondo il Fmi è la domanda interna a fare da driver, ma i servizi privati dai ristoranti ai parrucchieri alle agenzie di viaggio non hanno recuperato del tutto (nel primo trimestre erano ancora a crescita sottozero). Gli aumenti salariali rafforzano il potere d’acquisto anche se rilanciano l’inflazione. Il costo del denaro continua a salire, i tassi d’interesse di mercato calcolati sui buoni del tesoro decennali sfiorano il 4 per cento, però restano negativi in termini reali, quindi non penalizzano più di tanto gli investimenti. L’inflazione è scesa dal 10,1 all’8,7 per cento e dovrebbe ridursi di quattro punti:  resta ancora troppo elevata (anche la Banca d’Inghilterra ha un obiettivo del 2 per cento), ma per nutrire le aspettative dei consumatori conta ancor di più il trend. “Le autorità del Regno Unito hanno compiuto passi decisivi e responsabili negli ultimi mesi”, ha dichiarato esplicitamente la Georgieva. La lode riguarda in particolare il cancelliere dello scacchiere. Chiamato da Liz Truss come ultima speranza nell’ottobre scorso, Hunt ha “cancellato” (è la sua stessa definizione) l’improbabile pacchetto fiscale adottato dal suo predecessore Kwasi Kwarteng, a cominciare dai tagli alle imposte sia per i più ricchi sia per i redditi minori. Anche gli ingenti aiuti contro il caro bollette sono stati ridotti da due anni a sei mesi, risparmiando 100 miliardi di sterline. Inoltre la lotta all’inflazione, che aveva già superato il 9 per cento, diventava una priorità per ridare slancio a una sterlina fortemente indebolita. La svolta di Hunt non ha salvato la premier che è stata sfiduciata dal suo stesso partito, ma ha salvato la valuta risalita rispetto al dollaro dopo un pericoloso viaggio sull’ottovolante. 

Con l’arrivo di Sunak il cancelliere ha messo il piede sull’acceleratore per recuperare 55 miliardi di sterline fra tagli e tasse (compreso un rincaro dell’imposta sui profitti e un prelievo temporaneo sugli utili delle imprese elettriche). Non si tratta di austerità vecchio stampo perché nel frattempo il salario minimo è stato portato a 10,42 sterline l’ora, viene introdotto un tetto per gli affitti agevolati, le pensioni cresceranno in linea con l’inflazione. Insomma, realismo, rigore, equilibrio. Figlio di un ammiraglio, erede di piccola nobiltà terriera, è entrato in Parlamento con il Partito conservatore solo nel 2005, dopo una serie di esperienze le più varie compreso l’insegnamento dell’inglese in Giappone (la moglie Lucia Guo è cinese nata a Xi’an). Nel 2019 doveva essere lui il successore di Theresa May, ma la spuntò Johnson provocando sfracelli. Nel referendum del 2016, Hunt votò “Remain” e questa agli occhi dei falchi era la sua colpa. Adesso è un vero asso nella manica che gli consente di affrontare in modo diverso un rapporto con l’Unione europea che deve tornare amichevole, improntato a uno spirito non solo di generica cooperazione, ma di alleanza. Il nuovo quadro geopolitico, dal contrasto aperto all’espansionismo di Vladimir Putin al contenimento della Cina di Xi Jinping, lo impone. Il Regno Unito è una potenza nucleare insieme alla Francia, un potenziamento della difesa europea dentro la Nato, ma anche al fianco della Nato, non può fare a meno di Londra.

L’onda antieuropeista è ancora lunga, si proietta sulla questione nordirlandese (affrontata anch’essa con un nuovo spirito pragmatico) e ancor più su quella scozzese.
La roboante strategia della Global Britannia basata sui lontani fasti imperiali non ha retto alla verifica dei fatti, il Commonwealth si è ristretto, e la incoronazione di Carlo ha mostrato a tutti il nuovo cammino che la stessa Corona deve affrontare. Dopo Barbados, anche il Belize e soprattutto la Giamaica vogliono la repubblica, il Canada è parte integrante del Nafta (l’accordo di libero scambio con Usa e Messico), l’Australia il cui primo ministro Anthony Albanese (di origine italiana, il padre viene da Barletta) è un convinto repubblicano, ha ormai assunto una posizione strategica al vertice di un triangolo che collega l’America del nord all’estremo oriente. Il Regno Unito non può certo rifugiarsi in un polveroso passato. 

La Brexit ha portato inflazione e ha contribuito ad aumentare le frizioni negli scambi. I dati del Center for European Reform mostrano che il taglio del cordone ombelicale con l’Unione europea ha depresso la crescita economica. Il think tank indipendente ha affermato che alla fine dello scorso anno l’economia era in calo del 5 per cento –  31 miliardi di sterline – rispetto al livello cui sarebbe stata se il Regno Unito fosse rimasto nella Ue. Jonathan Haskel, membro del comitato per la politica monetaria della Banca d’Inghilterra, composto da nove membri, ha affermato che la Brexit stava “scollegando il Regno Unito dai suoi principali partner commerciali” in un chiaro esempio di deglobalizzazione. Esperto dell’Imperial College sui modi per migliorare la produttività, nel 2019 Haskel ha avvertito che gli investimenti delle imprese britanniche si sarebbero probabilmente indeboliti per diversi anni a causa dell’incertezza legata alla Brexit. Infatti, gli investitori hanno spostato i loro capitali fuori dalle isole britanniche e i super ricchi hanno aperto le danze. Uk e Irlanda sono regredite nella classifica dei maggiori mercati per fusioni e acquisizioni di imprese, in generale per grandi affari industriali e finanziari. In Europa s’è fatta avanti la piazza di Parigi dove operano boutique come Rothschild e la franco-americana Lazard, oltre ai colossi bancari BNP Paribas, Société Générale e Crédit Agricole, mentre i maggiori deal globali si concludono sempre più a Wall Street. Sembra quasi paradossale che la più importante operazione finanziaria e industriale dello scorso anno in Europa sia l’opa da 42,7 miliardi di euro su Atlantia, lanciata da Edizione la holding della famiglia Benetton insieme al fondo americano Blackstone, che prevede l’uscita dalla borsa di Milano. Sempre Blackstone è il protagonista del secondo grande affare, la ricapitalizzazione con 21 miliardi di euro di Mileway la grande società creata da Blackstone nel 2019 per gestire “l’anello mancante nella logistica; l’ultimo tratto che le merci percorrono per arrivare ai consumatori detto ultimo miglio”, una funzione strategica in un mondo in cui la logistica ha una posizione essenziale nella “catena del valore”. La compagnia è presente in ben cento città europee, il suo quartier generale non è a Londra, ma ad Amsterdam. 

La fuga dei capitali e dei capitalisti dalla City londinese è uno dei più eclatanti degli effetti della Brexit ne hanno approfittato Parigi, Amsterdam, Francoforte, Milano. E’ scorretto dire che Londra sia stata tagliata fuori, ma è vero che ha ridimensionato la sua posizione un tempo dominante. Il paradosso che rende la Brexit ancor più irrealistica, è che a questo punto si è rafforzata e ampliata la rete finanziaria europea nella quale la capitale britannica è inserita in modo strettissimo, un legame inestricabile di affari e relazioni al di qua e al di là della Manica che dimostra l’assurdità di ogni sovranismo separatista. Londra non può vivere senza essere in rapporto biunivoco con le altre “capitali del capitale” in Europa e fuori, con New York, Hong Kong, Shanghai, Singapore, Sydney. L’abbandono della patria dopo averne sfruttato politicamente la sua forza simbolica, il suo mito evocatore, ha toccato persino il ridicolo. Ha suscitato scalpore e scandalo tre anni fa quando l’uomo più ricco del regno, Sir James Ratcliffe, il magnate del petrolio con la sua Ineos, una fortuna stimata in 17,5 miliardi di sterline, colui il quale ha sostenuto con la parola e con la pecunia la campagna per la Brexit, ha lasciato la Britannia Infelix per il principato di Monaco un (quasi) paradiso fiscale: risparmia così 4 miliardi di sterline rispetto a Londra dove pagava un’aliquota del 45 per cento. Ha sfiorato l’insulto Nigel Lawson, ex cancelliere di Margaret Thatcher, presidente della campagna per il Leave, quando venne fuori che voleva chiedere la residenza in Francia dove viveva dal 2001; poi ha fatto marcia indietro e si è spento serenamente il 3 aprile scorso come suddito, ancora, di Elisabetta II. Alan Howard e Jeremy Isaacs, grandi donatori del Partito conservatore hanno trovato rifugio a Cipro come gli oligarchi di Putin. E che dire del roboante Nigel Farage il quale non voleva essere suddito della Unione europea germanica e aveva fatto ottenere a due suoi figli i passaporti tedeschi. Facce di bronzo che hanno predicato malissimo e razzolato ancora peggio. 

Difficile stendere un velo sugli errori commessi, ma è importante la voglia di cambiare strada mostrata dal governo Sunak. Importante per la Gran Bretagna e importante per l’Europa intera. Da quel fatal giugno 2016 è stata tutta una guerra di logoramento. L’intero establishment britannico (la funzione pubblica, i finanzieri, le grandi imprese, la maggior parte dei membri del Parlamento, la Bbc e gran parte dei media, l’alta magistratura e il mondo legale, praticamente tutta la nomenklatura universitaria), che aveva votato Remain, ha poi lavorato gomito a gomito con l’Unione europea per ammortizzare l’impatto della follia senza alcuna logica che aveva conquistato la politica, i Tory, ma anche l’ala dura del Labour. Il cosiddetto “Windsor Framework”, che il primo ministro britannico Sunak ha concordato con la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, è stato salutato come una risoluzione quasi miracolosa del problema destabilizzante creato dalla posizione anomala dell’Irlanda del nord all’interno del Regno Unito. Nessun miracolo, solo buon senso. Nasconde molti punti deboli, la Ue ha fatto concessioni non indifferenti, ma i critici sostengono che l’Irlanda del nord rimarrà sotto il controllo dell’Unione e il confine de facto sarà ancora al centro del mare d’Irlanda. La Corte di giustizia europea avrà l’ultima parola e le leggi della Ue continueranno a essere applicate. In fondo è nella natura della diplomazia trovare “soluzioni” che scontentano entrambe le parti in causa, ma non hanno alternative realistiche. Non solo. La Dichiarazione politica di Windsor riconosce e accetta il dato di fatto: la nebbia non separa il continente, ma le isole britanniche, al contrario del famoso e malizioso calembour. Se Londra esce dalla linea d’ombra nella quale l’ha gettata la Brexit, lasciandola in un limbo psicologico e identitario, come il capitano della nave nella novella di Joseph Conrad, tutti i paesi dell’Unione europea non possono che essere contenti. E lo è in particolare l’Italia che aveva perduto una sponda alla quale spesso in epoche diverse si era rivolta in quell’eterno equilibrismo con Francia e Germania che segna la sua storia fin dal Risorgimento.

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