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L'analisi

Cosa è andato storto tra Imran Khan e l'onnipotente esercito pachistano

Francesca Marino

L'arresto del capo del Pti ha gettato la nazione nel caos, le "proteste", incitate da un video del politico poco prima della sua incarcerazione, hanno prodotto morti e feriti. Con il rilascio dell'ex leader la battaglia si svolgerà tra due diverse fazioni dell'esercito, una progressista e l'altra conservatrice

“La situazione è grave ma non seria”, avrebbe commentato Ennio Flaiano a proposito degli ultimi sviluppi della infinita telenovela che è la politica pachistana. E gli ultimi fatti non fanno eccezione. Due giorni fa l’ex premier Imran Khan, tredici mesi dopo essere stato sfiduciato dal Parlamento e rimosso dall’incarico, è stato arrestato per aver venduto, intascandone i proventi, doni ricevuti nel suo ruolo di primo ministro e per aver favorito, dietro lauto compenso, un miliardario imprenditore indagato per riciclaggio dalle autorità britanniche. Khan è stato arrestato dal National Accountability Bureau (Nab) negli uffici dell’Alta corte di Islamabad, dove si trovava per comparire davanti ai giudici per un altro caso, e portato via in mezzo a una cinquantina di militari che lo hanno, secondo i suoi sostenitori, “strattonato e spinto”. Ieri però l’Alta corte si è espressa, e ha dichiarato l’arresto di Khan da parte del Nab illegale. 

 

Il rilascio è una vittoria per il suo partito, il Pakistan Tehreek-e-Insaf (Pti), ma anche un tentativo di calmare la situazione. Prima del suo arresto, Khan aveva registrato un video che incitava i propri seguaci a scendere in piazza e protestare. Ma definire “proteste” quello che è successo in diverse città del Pakistan nei giorni scorsi è soltanto un pietoso eufemismo. Il bilancio finale è di otto morti, un numero imprecisato di feriti, 1.600 persone arrestate nel solo Punjab. Sono stati arrestati, per incitamento alla violenza, tutti i quadri del Pti. Il bersaglio principale dei dimostranti è stato l’esercito: a Lahore è stata saccheggiata la sede dei Corps commander, mentre a Rawalpindi sono entrati perfino nel quartier generale dell’esercito. Già nei mesi scorsi, stazioni di polizia e caserme erano state prese d’assalto dai seguaci di Imran che marciavano chiedendo un cambiamento “attraverso le urne o con un bagno di sangue”. Materia del contendere era la mozione di sfiducia servita in Parlamento a Imran e la richiesta di nuove elezioni. Ai tempi Khan aveva gridato alla cospirazione, sostenendo di aver ricevuto prove di un complotto americano che finanziava un cambio di regime in Pakistan: il complotto era una bufala, ma la sfiducia no. Della sua destituzione e del presunto complotto ai suoi danni, Khan accusa soprattutto l’esercito pachistano. Di cui, fino al giorno prima, era il pupillo e il burattino, e che aveva contribuito in maniera determinante alla sua vittoria alle elezioni del 2018. 

 

Cosa è andato storto? In apparenza, si tratta della vecchia storia di Frankenstein: la creatura che si ribella al suo creatore e, nella fattispecie, intraprende una lunga battaglia suicida contro l’allora capo dell’esercito generale Qamar Javed Bajwa. Bajwa riesce ad avere la meglio, e da allora Imran non risparmia insinuazioni e accuse al suo indirizzo e anche a quello del nuovo capo dell’esercito, il generale Asim Munir, colpevole di sostenere il governo in carica. Colpevoli, tutti, di osteggiare il processo democratico che porterebbe Imran all’ennesima vittoria alle urne. Attenzione, però. Qui non si tratta di una lotta per la democrazia né di Imran che avrebbe il coraggio di opporsi allo strapotere dell’esercito: l’ex premier ci tiene sempre a precisare il suo profondo rispetto per l’istituzione tutta. Il suo problema sono gli individui: soprattutto quelli che, si dice, hanno messo lo zampino nelle varie accuse di corruzione contro Khan. Nello specifico, l’ultimo bersaglio è il generale dell’Isi Faisal Naseer, che secondo l’ex primo ministro avrebbe per ben due volte cercato di farlo assassinare. Nel frattempo, i suoi evocano il fantasma di Benazir Bhutto cercando di costruire l’ennesimo avatar per Imran: il martire per la libertà. E però la partita, anche in questo caso, è truccata: perché mescolati alla folla di simpatizzanti del Pti circolano anche membri, in pensione o in servizio attivo, dell’esercito e dei servizi che incitano la folla ad assaltare caserme e residenze ufficiali. La vera battaglia, dicono, è tra due diverse fazioni dell’esercito, una più progressista e l’altra più conservatrice. E Imran sta con i conservatori. Ma la partita che sta giocando con esercito e servizi segreti, quegli stessi che lo hanno condotto quasi di forza al potere e che di fatto governano il Pakistan, è più complessa e pericolosa. Soprattutto perché ha evidenziato una spaccatura all’interno delle monolitiche istituzioni pachistane. E’ perfino probabile, dicono in Pakistan, che Imran riesca a ottenere elezioni anticipate e che, dopo aver ricevuto un paio di metaforici schiaffoni, torni a vincere. Con la benedizione, ancora una volta, dell’esercito o, almeno, di buona parte di esso. La strategia del caos, in Pakistan, in fondo funziona sempre.

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