L'eredità irrisolta del generale Musharraf in Pakistan

Francesca Marino

L'ex presidente e dittatore è morto a Dubai. Considerato un borghese illuminato, religioso ma non integralista, che occasionalmente beve whisky e fuma sigarette, si era unito a Bush dopo l'11 settembre nella guerra contro il terrorismo. Un leader pieno di ombre

E' morto come non avrebbe mai voluto morire: lontano da casa, in esilio a Dubai. In un letto di ospedale, minato da una lunga malattia e con una condanna a morte per tradimento che, seppure cancellata dopo un mese, aveva costituito l'umiliazione suprema per l'anziano leader. Pervez Musharraf, ex presidente, ex capo delle Forze armate ed ex dittatore del Pakistan rientrerà finalmente in patria per l'ultima volta su di un aereo militare, tra polemiche e cordoglio. Perché sono in pochi a ricordare che, al principio, quello che è poi diventato uno degli uomini più detestati del Pakistan, si era presentato come un riformatore.

Nato a Delhi settantanove anni fa, Musharraf era figlio di una famiglia di mohajir: di immigrati, cioè, nell’allora neonato Pakistan all’epoca della Partition. Aveva trascorso la sua giovinezza in Turchia, ad Ankara, dove concepiva un’ammirazione smisurata per Ataturk e per il suo islam moderato. Tornato in patria, il giovane Pervez cresce a Karachi e viene educato in una scuola cattolica. Entra nell’esercito giovanissimo, dove si guadagna ben presto la fama di duro e puro, stellette a non finire e il lusinghiero titolo di “macellaio del Baltisan”, in memoria di una delle sue più riuscite campagne. L’amore di Musharraf per la divisa era, per sua stessa ammissione, sconfinato: dover rinunciare all’uniforme, nel novembre del 2007, è stata una delle prove più grandi della sua vita. Come direttore delle operazioni militari, collabora attivamente con Benazir Bhutto e con le agenzie dei servizi segreti per formare e portare al potere i talebani in Afghanistan. Viene nominato capo dell’esercito dall’allora premier Nawaz Sharif, che lo aveva, evidentemente, ampiamente sottovalutato.

Il nome del generale viene alla ribalta in modo clamoroso nel 1999, durante la cosiddetta guerra di Kargil, la cui genesi non è mai stata del tutto chiarita. L’unica cosa certa è che il generale, a quel punto, è diventato un’aperta minaccia al potere del primo ministro. Che cerca di liberarsi del suo capo dell’esercito tentando di dirottarne l’aereo su cui tornava in patria dall’estero. Musharraf prende il potere senza sparare un colpo, e spedisce Sharif in esilio in Arabia Saudita. Attentissimo all’immagine, il neodittatore regala di sé un ritratto capace di suscitare nella popolazione un forte processo di identificazione: il ritratto di un borghese illuminato, religioso ma non integralista, che occasionalmente beve whisky e fuma sigarette ma che si reca comunque in pellegrinaggio alla Mecca. “Mi piacerebbe essere ricordato come un riformatore, uno che ha favorito lo sviluppo del paese e l’instaurazione di un regime veramente democratico”, diceva Musharraf. Il che, detto da qualcuno che per otto anni è stato dittatore del Pakistan, fa quantomeno sorridere. Eppure, lui ci credeva davvero. Così come credeva davvero alla sua più fenomenale invenzione filosofica: il concetto di “dittatura democratica”, senza coglierne, neanche per un momento, né le contraddizioni né l’ironia.

 

Incredibilmente nel 2004, in un sondaggio svolto da un istituto americano, Musharraf risulta il leader più popolare del mondo, riscuotendo un clamoroso 86 per cento di consensi. Nella sua autobiografia In the Line of Fire, il presidente ha dichiarato di essere stato costretto, all’indomani dell’11 settembre, a unirsi alla coalizione guidata dagli americani nella guerra contro il terrorismo (con il famoso “we'll bomb you back to Stone Age” pronunciato da George Bush). Il suo sostegno alla causa americana gli guadagna l’etichetta di traditore nelle zone di frontiera del paese e tra molti leader religiosi. Musharraf inaugura intanto una stagione di riforme economiche, che portano il paese a crescere (almeno sulla carta) di un buon otto per cento annuo. Nel corso degli anni, l’immagine del dittatore democratico si appanna, e non di poco, sia agli occhi della popolazione pachistana sia della comunità internazionale. La famosa “ricetta Musharraf” di doppi e tripli giochi con salto carpiato in materia di politica estera è, con minime varianti, adottata ancora oggi da chiunque governi a Islamabad. L’integralismo islamico si diffonde in Pakistan in maniera esponenziale, le aree di frontiera esplodono, gli scontri tra integralisti ed esercito assumono i contorni di una vera guerra civile, con tutte le conseguenze del caso. La ribellione in Baluchistan, sedata in un bagno di sangue, acuisce tensioni etniche e separatismi mai sopiti. Esplode lo scandalo del traffico di materiale nucleare a opera del padre della bomba pachistana, Abdul Qadeer Khan: Musharraf si rifiuta di farlo interrogare dagli americani, e lo perdona dopo un sommario processo.

All’inizio del 2007, la popolarità del presidente è scesa al minimo storico. E continua a scendere nel corso dell’anno. Il 3 novembre 2007 dichiara lo stato di emergenza “per motivi di interesse nazionale”. In un discorso alla nazione, sostiene di non poter “permettere a questo paese di suicidarsi” e va avanti per la sua strada nonostante la frattura con il potere giudiziario sia ormai insanabile. La Corte Suprema, con una decisione storica, si rifiuta di ratificare lo stato di emergenza dichiarandolo “nullo e illegale”. Sessanta dei 97 giudici che compongono la Corte si rifiutano di prestare giuramento. A fine dicembre dello stesso anno, l'uccisione di Benazir Bhutto segna il definitivo tramonto dell'era Musharraf. Le contraddizioni e le incongruenze dell’uomo e del politico sono venute a galla, e appare sempre più difficile stabilire se Musharraf sia un dittatore sanguinario e senza scrupoli come sostengono alcuni, se sia un sincero democratico costretto dalle circostanze a giocare una partita truccata come sostengono altri, o se invece sia un cinico e spregiudicato uomo politico che ha cercato di usare gli integralisti per ottenere denaro e potere e ne è rimasto travolto.

Sconfitto alle elezioni e costretto a dimettersi, il dittatore più democratico della storia, dalla sua residenza nella cittadella militare di Rawalpindi, si offre sorridente e rilassato alle telecamere e si dichiara pronto a godersi tutto il “tamasha” (confusione, più o meno, in urdu) che Zardari, Sharif e il loro governo democratico saranno capaci di provocare. Due anni dopo, evidentemente stufo della vita da pensionato di lusso che conduce ormai tra Londra e gli Stati Uniti, guadagnando da conferenze, lezioni e consulenze di vario genere, Musharraf decide che è giunto il momento di rientrare in politica. Fonda un nuovo partito, la All Pakistan Muslim League (Apml), che ha come simbolo un solitario falcone, “l’unico pennuto che non vola in stormi ma preferisce la solitudine e la contemplazione delle alte vette”, come motto il tormentone preferito dello stesso Musharraf: “Pakistan First”, il Pakistan prima di tutto. Eppure, il rientro in patria dell'ex generale non è trionfale come sperato. La lista di coloro a cui non sarebbe dispiaciuto, sia pure per motivi diversi, vederlo finire come la buonanima di Benazir Bhutto è lunga un chilometro, e Nawaz Sharif, quando Musharraf rientra in patria, è di nuovo al potere. La vendetta personale contro il suo ex capo dell'esercito, costa a Sharif il governo e, alla fine, anche l'esilio: i generali non gradiscono che uno di loro, sia pure in pensione, venga messo sotto inchiesta per tradimento. Alla fine, la sentenza viene emessa in contumacia perché Musharraf, nonostante sia stato messo in una no-fly list, è intanto volato a Dubai per motivi di salute. Non tornerà mai più in patria.

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