Bashar al Assad e il presidente iraniano Ebrahim Raisi a Damasco (foto LaPresse)

Normalizzare

Trattare con Assad si può, dicono gli americani. E anche l'Italia si adegua

Luca Gambardella

C’è una nuova apertura verso il regime siriano. Parte dal Golfo, ma coinvolge anche Stati uniti (e il nostro paese). Domenica il voto alla Lega araba per il ritorno del dittatore, che ha già vinto

In Europa, i primi passi concreti per tornare a dialogare con il presidente siriano Bashar el Assad risalgono alla fine del 2022. Allora le divisioni fra le cancellerie europee su cosa fare in Siria erano latenti, con la linea della riabilitazione del dittatore difesa dai partiti nazionalisti emergenti, in primis quello di Giorgia Meloni in Italia. Fra ottobre e novembre dello scorso anno, si cominciarono a rincorrere le voci – poi ufficialmente smentite – sui primi vertici informali fra i delegati di alcuni paesi europei, Italia inclusa, per discutere dei benefici, soprattutto in ottica immigrazione, di un’eventuale normalizzazione con Assad.  

 

 

In quegli stessi giorni, alcuni delegati americani volarono in Oman per incontrare funzionari siriani. Secondo il Wall Street Journal, che ha pubblicato lo scoop mercoledì scorso, l’oggetto degli incontri era la liberazione di Austin Tice, il giornalista freelance catturato dal regime nel 2012. I colloqui vanno avanti anche adesso e in cambio della liberazione del giornalista americano, Damasco chiede la rimozione delle sanzioni appena approvate dal Congresso per colpire il traffico di Captagon prodotto in Siria e che scatteranno a giugno. Insomma, da mesi si tratta già con il regime, lo si fa faccia a faccia e la posizione dell’occidente, anche quella dell’Italia, che un tempo era di chiusura nei confronti di Assad non è più così netta.

 

Lo scorso Primo maggio ad Amman, i ministri degli Esteri di Giordania, Egitto, Iraq e Arabia Saudita si sono incontrati per discutere del possibile ritorno della Siria nella Lega araba. Hanno inoltre chiesto che tutte le forze straniere lascino il paese. Una dichiarazione ufficiale dal notevole impatto politico, se si pensa che oltre a Hezbollah, iraniani e russi, in Siria sono presenti anche gli americani, impegnati nella guerra allo Stato islamico. Ma nonostante questo, la reazione degli Stati Uniti è stata morbida. Il segretario di stato, Antony Blinken, si è limitato a dire che “chi riprende le relazioni con il regime di Assad dovrebbe considerate attentamente come questi sforzi possano rispondere alle necessità del popolo siriano”. Solo poche ore dopo, anche il ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani, ha scritto su Twitter che esiste una “visione comune nel percorso di normalizzazione con la Siria”. E’ stata la prima volta che la nostra diplomazia ha usato pubblicamente il termine “normalizzazione” riferendosi ad Assad. L’ammissione dell’esistenza di un “percorso” implica che qualcosa è cambiato. “Le sanzioni per ora restano e non sono in discussione”, fa sapere al Foglio una fonte diplomatica informata sulla posizione italiana a proposito del dossier siriano. “Tutto sta avvenendo in pieno coordinamento con i nostri alleati occidentali”. Già, perché la posizione dell’Amministrazione americana oggi è profondamente sfumata: “Non può esserci alcuna normalizzazione in assenza di un cambiamento politico”, ha detto l’assistente di Blinken, Barbara Leaf. Laddove “cambiamento politico” non implica necessariamente la destituzione di Assad. 

 

 

In ballo non c’è solo la decisione politica di riportare nel consesso internazionale un dittatore colpevole di ogni genere di atrocità nei confronti del suo stesso popolo. In ballo c’è anche la ricostruzione del paese, il settore a cui il mondo arabo è più interessato e da cui dipende anche chi influenzerà di più la Siria del domani, ormai priva di ogni genere di risorsa energetica o idrica e basata esclusivamente sul traffico illecito di Captagon. Dopo il terremoto in Turchia e Siria dello scorso febbraio, gli Stati Uniti hanno sospeso per 180 giorni le sanzioni che impedivano la consegna di aiuti umanitari a Damasco. Una prima resa che potrebbe anticiparne altre, come quella che riguarda il Caesar Act, la legge americana approvata nel 2019 e che impedisce di finanziare il regime di Damasco nella ricostruzione del paese. Il Caesar Act scadrà l’anno prossimo e l’idea di Emirati Arabi Uniti, Giordania, Egitto, Iraq e Arabia Saudita è fare in modo che Damasco torni nella Lega araba, per riabilitarsi formalmente anche agli occhi degli americani. Joe Biden è pronto a regalare alle monarchie del Golfo il suo non entusiastico consenso alla ricostruzione della Siria – Emirati e Arabia Saudita hanno progetti pronti per miliardi di dollari – e a cercare di ridare vigore ai rapporti diplomatici con le monarchie sunnite, in crisi da tempo. Ayman Safadi, ministro degli Esteri giordano, ha detto che un ritorno di Assad nella Lega sarebbe “solo l’inizio” e che “ci sono i voti” per riaccoglierlo. Il voto, appunto, è stato anticipato già alla prossima riunione di domenica a Riad. Basterà la maggioranza assoluta, ma per avere davvero un significato inattaccabile si cerca l’unanimità. Da quel momento, Assad spera di inaugurare una nuova fase della sua dittatura. Mercoledì, il presidente ha anticipato i festeggiamenti accogliendo a Damasco il presidente iraniano, Ebrahim Raisi, che dal tappeto rosso steso ai suoi piedi si è congratulato con il suo alleato siriano: “Hai vinto!”.

  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.