Bashar el Assad (foto LaPresse)

il narcostato e le sanzioni

Così Assad usa il Captagon per convincerci a trattare con lui

Luca Gambardella

Le pillole di anfetamina che finanziano il regime di Damasco sono finite al centro delle trattative fra il dittatore e i paesi che pensano di normalizzare le relazioni con lui

La normalizzazione delle relazioni con il regime siriano di Bashar el Assad passa anche per il traffico del Captagon, un tipo di anfetamina in pillole prodotte in Siria al costo di pochi centesimi, ma il cui mercato illecito ha generato un giro di affari stimato dal Foreign Office britannico in 57 miliardi di dollari l’anno, più o meno il pil della Slovenia. E’ la principale fonte di denaro che alimenta il regime di Assad e il suo entourage – un mercato illecito che ormai ha assunto dimensioni globali, coinvolgendo anche l’Italia.

  

 

Nel porto di Salerno, nel luglio del 2020, la Guardia di Finanza portò a termine il più grande sequestro di anfetamine al mondo: 84 milioni di pillole di Captagon. E’ chiamato la “droga del jihad” per la sua capacità di inibire paura e dolore, o Abu Hilalain in arabo, a indicare le due mezzelune impresse su ogni pillola. Fino al 2013, quasi tutta la produzione era concentrata nella valle della Bekaa, in Libano, ed era gestita da Hezbollah. Poi, con il coinvolgimento della milizia sciita nella guerra in Siria, gli stabilimenti sono stati spostati nelle zone sotto il controllo di Assad, avvalendosi del porto di Latakia come via d’accesso al Mediterraneo, con il benestare degli alleati russi e iraniani. 

 

Subito dopo il  sequestro di Salerno si affermò la teoria che la sostanza fosse stata prodotta dallo Stato islamico. Anche l’allora premier italiano, Giuseppe Conte, aveva parlato di “un ingente quantitativo di droga destinato a finanziare l’Isis”. Sono serviti tre anni alla procura di Salerno per concludere che invece a produrre quelle pillole – del valore complessivo di un miliardo di euro – non fu il Califfato, ma il regime di Assad. L’anfetamina era nascosta all’interno di macchinari industriali divisi in quattro container. Il carico era destinato a Khoms, sulla costa occidentale della Libia, ma era il luogo di partenza a rivelare le responsabilità del regime assadista: il porto di Latakia, città dell’entourage alawita del presidente siriano ed epicentro della produzione del Captagon. 

 

La Guardia di Finanza ha individuato in Taher al Kayali, 62enne di Aleppo, il responsabile del carico sequestrato a Salerno. Oltre a Kayali, al momento latitante, sono coinvolti Giuliantonio Apicella, spedizioniere doganale di Salerno, e Alberto Eros Amato, un imprenditore catanese di base a Lugano, in Svizzera. Sono stati questi ultimi due a gestire gli aspetti logistici. Partito da Latakia e dopo uno scalo in Grecia, il carico di anfetamina è stato spostato su altri container nel porto di Salerno con il metodo del “tramacco”, in modo da impedirne il tracciamento. I documenti di viaggio sono stati falsificati e nominalmente il destinatario della merce era la società svizzera Gps Sa Avion Supplier di Amato. “L’origine deve essere Italia o Svizzera, no Siria, sennò in Grecia lo bloccano – è un messaggio inviato da Amato ad Apicella e riportato dal Mattino – Devo garantire che la merce quando passa dalla Grecia non si rifà né all’origine (Siria) né al destinatario cliente finale (Libia). Per i pagamenti no problem”. 

 

Ora il nome di Kayali è finito nella lista dei soggetti sanzionati lo scorso 28 marzo da Stati Uniti e Regno Unito,  il primo provvedimento con misure restrittive contro entità attive nel traffico di Captagon. Oltre a lui, nella lista c’è anche Abdellatif Hamid, un imprenditore di Aleppo proprietario della fabbrica che produceva i cilindri di carta all’interno dei quali erano nascoste le pillole sequestrate a Salerno. Per capire quanto da vicino sia coinvolto il regime di Damasco in questi affari miliardari basta guardare ad alcuni fra i nominativi sanzionati. Fra questi ci sono due cugini di Assad, Samer Kamal – proprietario di un centro di produzione di Captagon ad al Basha, a sud di Latakia – e Wassim Badi. Poi c’è Khalid Qaddour, un imprenditore che gestiva il denaro ricavato dal contrabbando per conto di Maher al Assad, fratello del presidente e comandante della Quarta divisione, un’unità di élite dell’esercito siriano. 

 

Per gli Stati Uniti, colpire il mercato del Captagon significa colpire Assad. Così a ottobre dell’anno scorso il Congresso ha approvato il Captagon Act, un provvedimento mirato a smantellarne il traffico. Entro giugno, la Casa Bianca dovrà presentare una strategia più ampia con il coinvolgimento dell’intelligence e del dipartimento di stato. Ma secondo Charles Lister, ricercatore del think tank americano Middle East Institute, potrebbe non bastare. Dietro alla ripresa recente delle relazioni diplomatiche fra la Siria e l’Arabia Saudita, il paese dove la domanda di Captagon è la più alta al mondo, c’è una strategia precisa di Assad: “Il regime si offre di limitare il commercio di Captagon come incentivo a normalizzare le relazioni con Assad”, ha detto Lister. Una lettura in linea con quella espressa un mese fa circa da Barbara Leaf, che lavora al dipartimento di stato americano al desk per il medio oriente. “Alcuni paesi alleati vorrebbero riprendere le relazioni con Damasco – ha dichiarato Leaf – Io sono scettica in proposito, ma il nostro messaggio è che se proprio vogliono farlo, almeno cerchino di avere qualcosa in cambio”. Il blocco al mercato del Captagon, per esempio.

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  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.