L'uscita dell'Italia dalla Via della Seta è un caos

Sulla Cina non si può più essere ambigui, ci dicono gli alleati. L'azzardo del governo Meloni

Giulia Pompili

L'attivissima ambasciata cinese a Roma incontra tutti. Ma da quanto sei vicino a Pechino, da quanto Pechino ha accesso alle tue infrastrutture, ai tuoi progetti di ricerca, alle tue istituzioni, dipende anche la fattibilità degli investimenti degli altri

Mancano due settimane all’arrivo della presidente del Consiglio Giorgia Meloni a Hiroshima, per la sua prima riunione del G7, e la stampa internazionale si sta occupando soprattutto di una questione che riguarda la politica italiana: la Cina. Il governo Meloni è osservato speciale perché entro dicembre dovrà decidere ufficialmente sull’uscita o il rinnovo automatico della Via della Seta, il grande progetto strategico d’influenza cinese firmato nel marzo del 2019 dall’allora governo Conte 1. L’Italia è l’unico paese del G7 a essere dentro alla Via della Seta, ed entro la fine dell’anno, per scongiurare un rinnovo automatico di altri quattro anni, il governo Meloni dovrebbe mandare una comunicazione ufficiale a Pechino. Il rischio però è piuttosto alto.

 

Sebbene siano trapelate diverse indiscrezioni sulla stampa, a Palazzo Chigi un vero consenso sulla questione ancora non c’è. E il problema principale non è tanto sulla volontà strategica di uscire dal progetto politico cinese – che Meloni aveva criticato nel 2019 e anche durante la sua campagna elettorale. Piuttosto, si tratta di capire i termini e le modalità, perché una eventuale ritorsione economica cinese contro l’Italia potrebbe essere dolorosa per le aziende italiane, dal punto di vista degli investimenti italiani in Cina, di quelli cinesi in Italia, ma soprattutto per l’export italiano (8,59 miliardi di dollari nel 2022). Gli esempi di coercizione o boicottaggio economico di Pechino contro altri paesi sono diversi, ma è accaduto solo una volta che ci fosse un’uscita ufficiale dalla Via della Seta: si tratta dello stato di Victoria, in Australia, che aveva firmato senza consultare il governo centrale di Canberra il suo ingresso nel progetto, che poi era stato bloccato dal ministero degli Esteri nell’aprile del 2021. Ma l’Australia aveva poco da perdere perché era stata già colpita, sin dall’anno precedente, da un boicottaggio economico particolarmente violento da parte di Pechino (solo nel 2020, circa 3 miliardi di dollari di export persi). Per l’Italia si tratterebbe di una situazione inedita, che Meloni starebbe cercando di mitigare, trovando un modo per uscire dalla Via della Seta senza indispettire troppo i cinesi, e anzi cercando con loro una soluzione.  

 


Il problema è che l’Italia nella Via della Seta è sempre più al centro delle discussioni tra le sedi diplomatiche romane dei paesi del G7 e dei partner, e se la posizione del governo italiano è chiara e limpida sulla Russia, lo è meno sulla Cina. Pechino però è l’argomento prioritario della politica estera  dei paesi partner dell’Italia, perché da quanto sei vicino alla Cina, da quanto la Cina ha accesso, per esempio, alle tue infrastrutture, ai tuoi progetti di ricerca, alle tue istituzioni, dipende anche la fattibilità degli investimenti degli altri. E l’attendismo dell’esecutivo italiano nell’ufficializzare la sua posizione sulla questione, più che un dilemma, a questo punto è un po’ un azzardo, riassume una fonte diplomatica al Foglio. Meloni ha smesso anche solo di menzionare la Cina nei suoi discorsi pubblici. Ma sarà costretta a farlo durante le riunioni del G7 di Hiroshima. Avrebbe potuto porre il problema politico dell’uscita dalla Via della seta nelle sedi internazionali (a Bruxelles, al G7), cercando una soluzione comune, ma non l’ha fatto.  
D’altra parte, sottotraccia, nell’ultimo mese l’attività dell’ambasciata cinese a Roma è stata a dir poco frenetica. L’ambasciatore  Jia Guide ha avuto colloqui con diversi rappresentanti delle istituzioni e del governo Meloni: la scorsa settimana ha incontrato Pasquale Ferrara, direttore generale per gli Affari politici e di sicurezza della Farnesina, e il giorno dopo Ugo Zampetti, segretario generale della presidenza della Repubblica.

 

Il 19 aprile scorso, Jia Guide ha incontrato al ministero dell’Industria e del Made in Italy il titolare del dicastero, Adolfo Urso, e una settimana prima era stata la volta del ministro della Difesa Guido Crosetto. E nel frattempo il diplomatico cinese si è interessato anche ai media italiani: ha ricevuto in ambasciata Paolo Petrecca, direttore di RaiNews24, e qualche giorno dopo pure Stefano De Alessandri, ceo dell’agenzia Ansa, la stessa che nel 2019 firmò un accordo con l’agenzia cinese Xinhua per tradurre, di fatto, la propaganda cinese – accordo poi molto criticato e quindi cancellato. La diplomazia cinese lavora alacremente, fa il suo mestiere, s’insinua e mistifica con un messaggio che funziona molto bene in Italia: è colpa dell’America, non fate come l’America. Basterebbe un esempio: nella delegazione di parlamentari che sarebbe dovuta partire per Taiwan l’11 aprile scorso – un viaggio atteso e poi saltato all’ultimo – c’era anche Naike Gruppioni, deputata di Azione. Il 12 aprile, cioè il giorno dopo la presunta partenza, Gruppioni è stata ricevuta all’ambasciata della Repubblica popolare cinese a Roma, a seguito, secondo quanto risulta al Foglio, di una tempestiva telefonata d’invito da parte dell’ambasciatore Jia Guide. La Via della Seta è un problema politico, e la proverbiale ambiguità tutta italiana oggi non funziona più. 

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.