Una manifestazione contro Kais Saied a Tunisi nel 2022 (Lapresse)

Il focus

Così Kaïs Saïed ha spento l'aspirazione democratica della Tunisia

Rolla Scolari

Due anni di potere del presidente tunisino sono bastati per reprimere il libero pensiero nel paese africano. Il ritorno di un regime “senza il lavoro” è un guaio per Italia e Francia, ci dice Gilles Kepel, politologo e orientalista francese

Il Coro dell’Opera di Tunisi ha cantato l’inno nazionale, il presidente dallo sguardo austero ha stretto mani mentre visitava i padiglioni di diversi paesi arabi, dall’Iraq all’Arabia Saudita. Tutto normale, dunque, all’inaugurazione della 37ima edizione del salone del libro di Tunisi, tranne l’aderenza delle parole ai fatti. “È importante liberare il pensiero, perché non possiamo ottenere nulla con un pensiero rigido”, ha detto nel suo discorso di apertura il leader tunisino Kaïs Saïed. Poche ore dopo, gli agenti di sicurezza imponevano la chiusura dello stand di una delle maggiori case editrici del paese, Dar al Kitab – la Casa del Libro – e confiscavano il saggio appena pubblicato dall’autore Kamel Riahi, “Il Frankenstein tunisino”, che non nasconde – fin dalla caricatura sulla copertina verde – la critica al capo di stato in carica. Il giorno dopo, gli stessi agenti hanno portato via copie di un’altra opera, “Kaïs 1°, presidente di un battello ebbro”, del giornalista Nizar Bahloul. Con buona pace del pensiero libero. Proprio la parola liberata era stata la conquista più sconvolgente e inebriante di quella rivoluzione che nel 2011 aveva fatto della Tunisia la “culla delle rivolte arabe”, definizione ormai trita. Lungo i viali di Tunisi, come altrove nel mondo arabo-islamico prima degli sconvolgimenti di oltre un decennio fa, discutere in pubblico di politica, manifestare il proprio dissenso significava prigione certa. Le proteste che portarono alla fine di 23 anni di dominio del dittatore Zine el Abidine Ben Ali ebbero come prima conseguenza quella di ridare una voce politica a una popolazione repressa.

 

Era iniziata la prima transizione democratica del mondo arabo, la sola che fino a qualche tempo fa ha avuto un percorso credibile. Ci sono voluti dieci anni per abbozzare il tentativo di una democrazia. Sono serviti meno di due anni al presidente Kaïs Saïed per mandare in coma questa rara e preziosa transizione. L’arresto da febbraio di oltre 20 tra politici, uomini d’affari, personalità dei media è l’ultimo capitolo di una serie di picconate contro il sistema – perfettibile e grezzo – sorto a fatica nell’ultimo decennio. Sono accusati di “complotto contro la sicurezza dello stato”, uno slogan diventato marchio di fabbrica delle autocrazie regionali. Neppure l’indignazione internazionale per il fermo – ad aprile – del maggiore oppositore della presidenza, Rached Ghannouchi, ha innescato qualche mea culpa. L’anziano leader islamista di Ennahda era stato presidente di quel Parlamento che è prima stato sospeso poi sciolto da Saïed. Il quale, eletto nel 2019, ha progressivamente assunto i pieni poteri destituendo il primo ministro, varando “misure eccezionali” che gli consentono di legiferare con decreto e di presiedere il Consiglio dei ministri. Con il referendum costituzionale del 25 luglio 2022 ha cancellato la Costituzione del 2014 e imposto una nuova Carta che dà vita a una “super presidenza”, per non dire autocrazia.

 

Populista e costituzionalista sono i due aggettivi con cui è spesso descritto Kaïs Saïed, il professore universitario di diritto costituzionale che nel 2019 ha fatto campagna con lo slogan “il popolo vuole”, accusando “le élite corrotte” di aver tradito le promesse della rivoluzione. E che ha vinto le elezioni con numeri eccezionali. La crisi socioeconomica in cui da anni è la Tunisia, aggravata dalla pandemia, ha garantito a Saïed un sorprendete successo. È accaduto perché “la democrazia tunisina che aveva suscitato speranze in Europa era soltanto formale. Se la libertà d’espressione era grande, il Parlamento non ha funzionato, bloccato da coalizioni tra islamisti e laici che si sono fatti gli affari loro senza realmente lasciare lavorare l’Assemblea”, dice Gilles Kepel, politologo e orientalista francese. Un sistema parlamentare disfunzionale ha dunque accelerato il crollo economico: per la gioventù della regione “la libertà d’espressione è importate, ma più importante è la libertà economica”. Il candidato Saïed ha fornito nel 2019 “l’illusione di quella prosperità”. Eletto, il populista ha però perso il popolo. Se il sapere giuridico del presidente-professore ha messo in ombra il diritto, il popolo nella sua visione sembra essere ora soltanto un espediente retorico: la partecipazione degli elettori al referendum costituzionale del 2022 è stata del 28 per cento e l’astensionismo al secondo turno delle legislative di inizio 2023 è salito a un 89 per cento da record. Non era andata meglio al primo turno. C’è “disinteresse per il processo elettorale perché i tunisini vedono il Parlamento svuotato di senso e perché non c’è più un partito capace di mobilitare – spiega Kepel – Gli islamisti di Ennahda hanno perso attrattiva nelle classi popolari, in un momento in cui l’islamismo è in crisi come modello politico nella regione”.

 

Anche il processo con cui è stata discussa e redatta la nuova Costituzione racconta un populismo estraniato dal popolo. La Carta del 2014 era nata dal lavoro di un’Assemblea costituente eletta nel 2011 attraverso il primo voto libero del paese. Le sue sessioni, il lungo dibattito di anni, è stato aperto alla stampa, e ogni giorno la Tunisia sapeva quale articolo era in quel momento in discussione e quali erano i termini del dibattito o dello scontro. L’esito è stato un testo nato dal compromesso tra gli islamisti di Ennahda e i partiti laici. Nel 2022, persino i giuristi incaricati della stesura della bozza della nuova Costituzione, processo avvenuto invece a porte chiuse, hanno preso le distanze dall’ultima versione del documento. Nel 2011, in Tunisia il 70 per cento della popolazione sosteneva le aspirazioni democratiche, secondo un sondaggio del Pew Research Center. Nel 2014 la percentuale era scesa al 48 per cento: molti si aspettavano che la democrazia portasse con sé un benessere economico immediato, mai arrivato. La fiducia nella transizione ha subìto così il colpo più duro. “La democrazia liberale – ricorda Kepel – si esercita se c’è lavoro, altrimenti emergono i populismi”. In Tunisia come altrove.

 

Il presidente Saïed, che oggi rifiuta le condizioni imposte dal Fondo monetario internazionale per l’ottenimento di un prestito sempre più necessario a una Tunisia piegata dalla crisi, non è riuscito a migliorare questa situazione, a fare meglio dei governi precedenti, benché la giustificazione del suo colpo di mano resti quella del salvataggio dello stato dall’incompetenza. Il ritorno di un regime à la Ben Ali ma in cui manca il lavoro è per Kepel un problema anche per Italia e Francia, perché si traduce in ingenti flussi migratori. Le prossime elezioni presidenziali saranno nel 2024. Saïed può ambire a un secondo mandato e la speranza è che l’attivismo della società civile tunisina – elemento unico nel panorama regionale che ha permesso alla Tunisia un percorso diverso dagli altri protagonisti delle rivolte del 2011 e che per la sua azione ha ricevuto un premio Nobel – ritrovi vigore. Kepel però resta pessimista: quella società civile, sostiene, è espressione di una classe media che non ha saputo assicurarsi una base popolare.

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