il ritratto

Hemedti, il destabilizzatore del Sudan

Chi è il generale a capo delle Rsf, una versione aggiornata dei Janjawid, che vuole prendersi la legittimità col terrore

Cecilia Sala

Il generale vuole prendersi tutto in nome della “lotta agli islamisti”, una formula che suona bene ma che in Africa e in medio oriente spesso viene usata dai criminali per legittimare i propri crimini. Oggi in Sudan l’epidemia di violenza senza regole non è quella “islamista” ma la sua, targata Janjawid

Il generale Dagalo che sabato mattina ha dato inizio alla guerra in Sudan provando a prendere il palazzo presidenziale con le bombe, ieri ha comunicato ai suoi follower su Twitter di aver avuto una conversazione produttiva con il Segretario di stato americano Antony Blinken in cui, dice, “abbiamo discusso della nostra comune dedizione alla libertà, alla giustizia e alla democrazia”. A Khartoum il generale Dagalo lo chiamano “Hemedti” e se lo ricordano non per i crimini che ha commesso con i Janjawid in Darfur a partire dal 2003, ma per quelli di giugno 2019. In piazza c’erano i sudanesi della protesta che aveva appena fatto cadere il dittatore Omar Bashir e gridavano le stesse parole del tweet: “Libertà, giustizia, democrazia!”. Dagalo stava dalla parte opposta: aveva mandato i suoi miliziani a bruciare le tende dei manifestanti accampati mentre ci dormivano dentro. I suoi uomini delle Forze di supporto rapido (Rsf) – la versione aggiornata dei Janjawid – avevano preso le ragazze, le avevano portate via dalla piazza della protesta e le avevano stuprate. Alcune dopo le avevano anche ammazzate e avevano buttato i Ioro corpi nel Nilo. I dottori del sindacato dei medici sudanese avevano contato 118 cadaveri di giovani andandoli a recuperare nel fiume e per le strade – sono gli stessi medici che in queste ore ci aggiornano sul conteggio dei morti della nuova guerra, che va più veloce anche di quanto le organizzazioni umanitarie internazionali e nazionali sul campo temessero nei loro scenari più catastrofici.

“Da lunedì la situazione è peggiorata perché nel fine settimana c’erano solo le bombe mentre ora ci sono i rastrellamenti”, dicono al Foglio da Khartoum. Le Rsf hanno cominciato a entrare nelle case e cercano i soldi in contanti e qualsiasi oggetto prezioso, spaccano gli oggetti, prendono le ragazze, cercano le armi private e le munizioni. “I soldati regolari fanno paura perché lanciano le bombe, ma non si comportano allo stesso modo. Sono sudanesi e la cultura locale è la loro cultura, la popolazione è fatta di amici, conoscenti, ex compagni di scuola, parenti, amici delle mogli e delle fidanzate, non si permettono lo stesso tipo di orrori”. Le Rsf sono piene di uomini che vengono da oltre i confini e non hanno legami stretti con gli abitanti del Sudan, soprattutto sono piene di ex bambini soldato che non hanno mai conosciuto nient’altro che la violenza estrema. Nessuno di loro – neanche il generale “Hemeti” – ha fatto un’accademia militare, hanno imparato il lavoro imitando gli uomini più adulti ai tempi degli stupri etnici e delle uccisioni di massa in Darfur, la regione dell’ovest grande quasi due volte l’Italia e abitata da minoranze non-arabe. Gli unici che hanno avuto una formazione militare quasi professionale l’hanno ricevuta dalla compagnia di mercenari Wagner a partire dal 2017 ed era improntata al culto della violenza. “Detesto Hemeti quanto il generale Burhan (il capo delle Forze armate e, dopo il golpe del 2021, del paese), ma se incrocio dei soldati sudanesi non muoio di terrore, se bussano alla porta i Janjawid so che è l’inferno”.

L’esercito di Burhan – che oggi incarna una versione più fragile e grigia della dittatura di Omar Bashir – ha un vantaggio sui paramilitari e sono gli aerei, almeno quelli che non sono ancora stati distrutti o catturati dai nemici, che però non li sanno maneggiare e far volare. Il “vantaggio” militare dei Janjawid non è nelle attrezzature sofisticate ma nei metodi brutali che hanno già premiato in Darfur dove l’orrore perpetrato per anni ha ammansito gli abitanti ribelli del luogo. 

Il generale Dagalo nell’ultimo periodo si era travestito: aveva cominciato a indossare spesso l’abito e la cravatta al posto della divisa, aveva dato interviste al New York Times e alla Cnn e frequentava le capitali straniere. Era a Mosca in visita ufficiale il giorno che Vladimir Putin ha ordinato l’invasione dell’Ucraina. Gli ultimi due giorni di una guerra in Sudan che non si può chiamare civile perché proprio i civili sono stati estromessi e traditi mentre i militari si ammazzano tra loro, il generale li ha passati a convincere la comunità internazionale a stare dalla sua parte. A dimenticare e perdonare tutto in nome della “lotta agli islamisti”, una formula che suona bene ma che in Africa e in medio oriente spesso viene usata da criminali per legittimare i propri crimini. Oggi in Sudan l’epidemia di violenza senza regole non è quella “islamista” ma targata Janjawid.

Gli Stati Uniti considerano Hemeti un destabilizzatore seriale e prima della guerra in Sudan, alla fine dell’anno scorso, la Cia ha formalizzato il sospetto che il generale volesse partecipare a un colpo di stato in Ciad, dove ci sono delle truppe Rsf. Dal Ciad, come dalla Libia, gli uomini di Hemedti stanno tornando in Sudan e si muovono in direzione di Khartoum. Con questa guerra il loro capo ha deciso di giocarsi ogni cosa e ora non può perderla: solo pareggiare o vincere.

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