Quale pace dopo il nuovo diluvio che in terra d'Ucraina ha sommerso tutto, senza scampo

Francesco M. Cataluccio

Un anno con la guerra. Le chiacchiere in tv e i dibattiti senza la storia in Italia. E poi il conflitto visto da vicino

Spesso le date si associano a fatti che non sembrano poter stare assieme coerentemente. Ricordo bene la mattina di giovedì 24 febbraio di un anno fa. Ero a Roma per lavoro. Fui svegliato all’alba dalla telefonata concitata di un’amica giornalista di Varsavia che continuava a ripetermi “i russi sono entrati”. Ci eravamo sentiti alcuni giorni prima: lei era certa che i russi avrebbero attaccato con un esercito regolare l’Ucraina, io le avevo baldanzosamente detto che non sarebbe successo, perché non era logico, e che esagerava. 

 
Quella mattina me l’ero tenuta libera. Avevo preacquistato, per le dieci, l’ingresso ai Musei Vaticani dove non ero più stato da quando avevo dieci anni. Ci sono andato lo stesso, nonostante uno stato d’animo da fine del mondo. O forse proprio per quello. Dentro la Cappella Sistina mi sono afflosciato su una panca e sono rimasto lì per un’ora, col cellulare spento, abbagliato da quella potente bellezza, sognando che non ci fosse più nulla là fuori. Ma, in un punto del soffitto, ho visto persone disperate che cercano rifugio sulla cima di una montagna, sperando di essere al sicuro dall’acqua che sale. In lontananza, uomini malvagi sulla piattaforma dell’Arca che cercano di correre verso di essa per mettersi in salvo. Si avvicina una piccola barca che sta per capovolgersi e coloro che l’hanno raggiunta respingono gli altri…

 
Da quel giorno, la vita per me ha preso un altro colore di fondo: più bruno, quasi bruciato. Ero stato tante volte in Ucraina, sopratutto quando stavo scrivendo il libro su Chernobyl o per gli incontri sullo scrittore Bruno Schulz nel suo paesino natale con le botteghe color cannella, circondato dai campi di girasoli enormi. Mi ha sempre incantato il verde di quelle immense pianure, a perdita d’occhio fino a toccare il cielo all’orizzonte, e il biancore candido della chiese dalle cupole dorate. Un luogo dove la Storia ha quasi sempre picchiato molto duramente, senza confini certi e sicuri che si chiama appunto “Sul confine”. Una precarietà e incertezza secolari, bagnate dal sangue, dai massacri, dalla fame. Periodicamente, per quei popoli, e in particolare per gli ebrei (che costituivano la più grande comunità della diaspora), l’Ucraina e i paesi limitrofi hanno subito qualcosa di simile a un diluvio che sommerge, senza scampo, tutto.

 
Già il sabato 26, tornato a Milano, andai a una grande manifestazione: alla testa del corteo gridavano “pace”, invece in coda, attaccate a una lunghissima bandiera gialla e azzurra, le donne ucraine cantavano piangendo il loro inno, intervallato da un ammonimento in italiano: “Oggi a noi, domani a voi!”. Non l’ho dimenticato. Quello è forse il senso di tutto quello che è successo dopo: aiutare gli ucraini a difendersi, per difendere l’Europa, e anche noi. Molti, stando ai sondaggi,  pensano che la cosa non ci riguardi e che, banalmente, sarebbe meglio per  la “nostra pace” continuare a fare gli affari nostri, senza problemi né rischi.

  
Poi, mentre in Ucraina passavano giorni sempre più tragici ma la resistenza di quel popolo fermava e poi respingeva in parte l’“operazione speciale”, è iniziato un orrendo carosello mediatico. Come era già successo durante il Covid, quando chiunque, senza nemmeno un briciolo di competenza o buon senso, si metteva in mostra e diceva la sua, il “dibattito sulla guerra” si è fatto acceso. Quello che anche in questa occasione interessava (e interessa), soprattutto alle televisioni, non è spiegare, ma la rissa come intrattenimento (a prescindere dai contenuti). Ci è toccato vedere personaggi improbabili messi in piazza in nome della “pluralità delle idee”. Come quello dall’aria indifesa che confessava candidamente di non conoscere la Russia, il russo, né tantomeno l’Ucraina, ma pretendeva di essere uno dei più lucidi e freddi osservatori della politica internazionale. Consigliava caldamente agli ucraini di arrendersi per il bene di noi tutti, tanto non avrebbero mai potuto vincere contro una gigantesca potenza, dotata di armi atomiche. Così è quasi riuscito a farsi contrattualizzare dalla televisione pubblica come “esperto” e ideale deuteragonista nei dibattiti serali. Oppure la filosofa, anche lei totalmente ignara della storia russa e ucraina, che si raccomandava sospirando di non infastidire troppo i russi, di rispettare il loro presidente e tenere conto del punto di vista degli invasori. 


Nella discussione sulla guerra, e sul coinvolgimento italiano a fianco degli ucraini, la parte dei giganti l’hanno fatta i “geopolitici”, per i quali le storie (che conoscono poco), le tradizioni ma anche i lutti pregressi, contano poco. Hanno spiegato tutto con la legge del più forte e delle sue ragioni geografiche, e del senso di insicurezza e del sentirsi minacciati dal piccolo nemico, appoggiato dal nemico globale. Mi è rimasto impressa l’espressione di uno di loro che, strabuzzando gli occhi, chiedeva alla conduttrice e agli altri ospiti. “Ma che vogliono gli ucraini?!”.


Tra la gente c’è chi si è bevuto, più o meno consapevolmente, la propaganda russa e la teoria che l’intervento fosse dovuto alla necessità di difendere i russofoni (che, tra l’altro, si sono dimostrati in maggioranza poco filorussi, preferendo una democrazia a una dittatura!) e per “denazificare” un paese schieratosi sulle posizioni più nazionaliste, come quelle del “famigerato” Stepan Andrijovich Bandera (ucciso dai servizi segreti sovietici, il 15 ottobre 1959, a Monaco di Baviera). Qualcuno, anche tra i giornalisti più seri, per semplificare, ha sostenuto che tutti gli ucraini sono antisemiti (a cominciare dal presidente, ebreo e russofono, Volodymyr Oleksandrovych Zelensky), e quindi non meritano solidarietà. Se avessero letto almeno qualche pagina dei romanzi di Vasilij Grossman avrebbero compreso di che pasta sia l’antisemitismo russo. Un attor comico ha detto seriamente che Zelensky è un pessimo attore. La Lega di Salvini e Silvio Berlusconi hanno trovato ogni occasione per ribadire la loro amicizia, non disinteressata, con Putin e i suoi oligarchi, mal sopportando la ferma linea politica di Mario Draghi e la sua autorevolezza internazionale (indimenticabile l’immagine di Draghi, Macron e Scholz, senza giacche, sul treno notturno alla volta di Kyiv). 


Anche in questa occasione una parte della sinistra ha mostrato di non essersi ancora liberata da un profondo sentimento antistatunitense e quindi ostile alla Nato. Si avverte ancora un legame con la Russia (meglio quando era Unione Sovietica) che non ha mai fatto i conti criticamente con la storia e gli orrori del comunismo. Da una parte si è considerata la lotta difensiva degli ucraini come una “guerra americana per procura” (un ex conduttore televisivo, che si vanta di esser stato su un ponte di Belgrado mentre la città veniva bombardata per fermare i massacri di Milosevic, la chiama “la guerra di Biden”). Putin non avrebbe colpe, se non quella di esser stato attirato in una trappola per espandere il dominio dell’Occidente. C’è chi pensa che il Pd abbia preso una deriva filoamericana, come anche il suo giornale di riferimento, che infatti è stato abbandonato da  diversi suoi lettori insofferenti verso le eccessive critiche a Putin e il troppo spazio dato agli intellettuali russi dissidenti. Consapevoli di questo “disagio” i Cinque stelle, nel tentativo di portarsi a casa una parte dell’elettorato di sinistra, hanno adeguato la loro politica prendendo posizione contro l’invio di armi agli ucraini e per “una politica che favorisca la pace”.

 
Sulla pace si è aperto un fronte cha va dalla Cgil, ai delusi della politica del Pd, agli eredi dei partigiani.  Fanno tornare alla memoria gli anni Cinquanta quando questo nobile concetto venne sporcato da movimenti filosovietici che intendevano la pace solo in funzione antistatunitense. Mi è capitato di partecipare a dibattiti organizzati da circoli di sinistra o organizzazioni partigiane dove si oscillava tra la giustificazione, seppur velatamente critica, della guerra di Putin e la riaffermazione che nulla giustifichi la guerra (come se i partigiani o, ad esempio, gli insorti del Ghetto di Varsavia non avessero usato le armi contro l’oppressore!). Trionfa in questi incontri il principio dei due pesi e due misure. Diverso, ma unito nelle stesse manifestazioni di piazza contro la guerra,  è il pacifismo di alcune organizzazioni cattoliche (ben diverse da quelle che praticano un prezioso volontariato umanitario). I pacifisti hanno soprattutto paura che i russi usino la bomba atomica (evento assai improbabile) e quindi sostengono di fatto che gli ucraini dovrebbero smetterla di difendersi, cedere parti consistenti del proprio territorio e far finta che i russi non mirino, prima o poi, a riprendersi tutta l’Ucraina compiendo orribili massacri di civili e distruzioni a tappeto di città e paesi. Perché torni la pace bisogna, secondo loro, che gli ucraini non ricevano più armi anche se questo li esporrebbe alla devastazioni degli eserciti mercenari russi e ceceni. I governi occidentali dovrebbero chiudere i rubinetti degli aiuti agli ucraini costringendoli a piegarsi a Putin e alle sue richieste. Ma non si ha il coraggio di ammettere che questa pace sarebbe, come già diceva Tacito, il deserto che ne seguirebbe.


Quando sono andato a marzo in Polonia ho visto come i milioni di profughi ucraini (soprattutto donne e bambini) venissero accolti in una gara di solidarietà sorprendente: gli ucraini sono diventati un popolo fratello. Là, a differenza che in Italia (dove comunque c’è una grande solidarietà), non è un fatto scontato: sia perché le frontiere del paese sono ermeticamente sbarrate ai migranti asiatici e africani (e il governo non ha mai voluto prendere in considerazione una redistribuzione su scala europea degli esuli), sia perché i rapporti polacco-ucraini sono stati storicamente assai burrascosi (basti pensare che Leopoli e tutta la Galizia orientale, fino al 1939, erano polacche). Ma i polacchi, così come i paesi baltici, negli ultimi decenni consideravano l’Ucraina  un “cuscinetto” tra loro e le mire neoespansionistiche della Russia (che potrebbe utilizzare la Bielorussia). In questi mesi, mi sono recato anche ai valichi di confine polacco-ucraini e ho assistito al flusso continuo di fuggiaschi (con pochi bagagli ma mai senza i propri animali domestici), percependo meglio le dimensioni della catastrofe che l’Ucraina sta subendo. I danni non sono soltanto fisici e materiali, ma anche di natura psichica. Come mi ha detto un amico scrittore ucraino, rifugiatosi a Varsavia, in un anno, nonostante i gravi fatti successi già dal 2014 in poi (la conquista della Cecenia e la guerriglia fomentata nel Donbas), la Russia ha trasformato il più esteso paese d’Europa nel suo più acceso e irrecuperabile nemico, che sui suoi mucchi di cadaveri e macerie costruirà inevitabilmente una narrazione nazionalista e antirussa, questa sì difficilmente trasformabile, nonostante l’intelligenza e la sensibilità di una parte delle élite intellettuali e dei ceti medi ucraini, in qualcosa che assomigli a una vera e duratura pace.

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