a un anno dall'invasione russa

La battaglia che salvò Kyiv

Micol Flammini

Mosca è arrivata a Hostomel sprecando colpi e senza un piano B. Cosa lega gli aerei alla Coca-Cola, nell’aeroporto che ha salvato la capitale ucraina

Hostomel, dalla nostra inviata. Un anno di storia in tonnellate di rottami: camion Kamaz con il muso schiacciato, ali di elicotteri Kh-52, cingoli, un tronco di betulla che nessuno ha idea del perché i soldati russi abbiano avuto l’idea, o la necessità, di portarsi da Mosca. I lavoratori dell’aeroporto Antonov 2 di Hostomel non si aspettavano di ritrovarsi al centro della battaglia per la sopravvivenza di Kyiv. Avevano ricevuto informazioni di un attacco imminente  e l’ordine era di spostare i preziosi aerei, soprattutto il grandissimo An-225 Mriya: l’aereo da trasporto più grande del mondo, sventrato giorni dopo dai colpi russi. Il 23 febbraio erano stati testati i motori, per il giorno seguente si attendevano i documenti per spostarlo dalle parti di Lipsia, in Germania. Il tempo c’era, i funzionari di Antonov 2 ne erano convinti e lo sono rimasti fino alla mattina del 24, quando il capo del centro di controllo, Volodymyr Smus, ha ricevuto una telefonata alle cinque del mattino. Era un collega che lo informava che l’aeroporto di Boryspil era stato attaccato. “Ho capito lì che sarebbe accaduto anche a noi, sono andato a lavoro, dovevamo spostare gli aerei, temevamo dei danni, non certo la cattura dell’aeroporto”, dice al Foglio.

 

Secondo le loro informazioni l’urgenza era a est e a sud dell’Ucraina e l’idea di spostare gli aerei era una precauzione, un di più da svolgere in un giorno di lavoro pressoché normale. Erano già arrivati gli uomini della Guardia nazionale, si erano disposti lungo il perimetro dell’aeroporto, erano poco armati, anche la loro presenza sembrava un’altra precauzione, non un’urgenza. 

 


Il primo giorno di guerra, invece, a Hostomel si è combattuto con furia. Gli aerei di Mosca hanno iniziato a colpire l’aeroporto nella tarda mattinata, Smus seguiva ogni colpo dal rifugio, ogni tanto qualcuno andava fuori per controllare la situazione. Chi usciva tornava sconvolto. Chi stava dentro si sporgeva per controllare che i colleghi usciti non venissero colpiti. Fino a quando l’ultimo gruppo mandato a controllare non si è messo a camminare con le mani in alto: era il segnale, i russi erano sul territorio e la Guardia nazionale si stava ritirando. “Ci hanno fatto uscire dal rifugio, con noi c’erano uomini della guardia di frontiera, avevano l’uniforme, loro da una parte e noi da un’altra. Loro sono stati fatti prigionieri e liberati in uno scambio mesi dopo, noi siamo riusciti a uscire”. I colpi arrivavano da tutte le parti, quel giorno c’erano soltanto duecento dipendenti, Smus, assieme al suo vice, ha caricato un ferito in macchina. I russi sparavano anche contro la  macchina, sembravano sprecare munizioni,  pensavano di avercela fatta. Fuori dall’aeroporto, mentre Smus circolava per le vie di Hostomel, sembrava un altro mondo: “I negozi erano aperti, la gente era per strada. Abbiamo scherzato e ci siamo sentiti fortunati”. Smus è di Irpin e dice che sono innumerevoli le volte in cui ha sentito la fortuna dalla sua parte.

  

  
Quel 24 febbraio, sul territorio dell’aeroporto, c’era anche  il luogotenente della Guardia nazionale Starsky, brigata di reazione rapida “Frontier”. Prima dell’inizio dell’invasione aveva deciso di dare consigli sul suo canale YouTube su come prepararsi all’attacco, i commenti sotto ai primi video lo accusavano di diffondere il panico. Non è tipo da allarmismi  e ammette: “Abbiamo capito quanto Hostomel fosse vitale per la sopravvivenza di Kyiv soltanto in seguito”. Il piano dei russi non era chiaro da subito: volevano conquistarlo per radunarci  gli uomini e i mezzi per attaccare la capitale. “Quando il 24 abbiamo ricevuto l’ordine di ritirarci dall’aeroporto sono stato contento, era insensato, avevamo finito le munizioni, dovevamo riorganizzarci, i russi erano troppi. Ci siamo diretti verso Kyiv e spesso dovevamo buttarci a terra, gli aerei russi ci cercavano e avevano colpito una nostra postazione”. Una volta arrivati nella capitale hanno raccolto le informazioni. Dei centoquaranta elicotteri che partivano dalla Bielorussia, settanta si dirigevano verso Hostomel, Mosca stava usando i suoi uomini migliori per l’assalto dell’aeroporto e aveva iniziato l’invasione con obiettivi ambiziosi e pochi  soldati. “E’ stata l’artiglieria a prenderli di sorpresa. Siamo riusciti a distruggere anche tre elicotteri che trasportavano soldati, ne hanno persi troppi sin dall’inizio”. I resti dei velivoli abbattuti si trovano nel territorio dell’aeroporto, bruciati e coperti di nuovo dalla neve. I russi sono arrivati a controllare l’aeroporto, c’erano anche gli uomini del ceceno Kadyrov: tra  loro anche il generale Magomed Tushayev. “Un giorno si era messo a distribuire medaglie lì – Starsky indica un capannone crivellato di colpi – è una zona aperta, potevamo vederlo, ma lui si sentiva al sicuro. Così è partito un attacco e anche se i russi dicono che non è vero che Tushayev è morto, nessuno lo ha più visto. Credo proprio sia morto qui”. Starsky confessa di essere un appassionato dei video su TikTok dei kadyrovtsy, gli uomini di Kadyrov: si riprendono ovunque, anche quando muoiono.

 

 

Suonano gli allarmi e Starsky spiega che probabilmente sono i palloni che i russi hanno preso a lanciare da qualche settimana. Rimane calmo e continua a raccontare che i soldati di Mosca  sparavano tanto per sparare, sprecavano, si sentivano superiori e si sono presentati senza un piano B. Fallito il piano A non hanno più saputo cosa fare: “Volevano un’operazione lampo, un blitzkrieg, hanno avuto un blitzcringe, un’operazione imbarazzo”. Dopo un mese si sono ritirati, ora non torneranno, tra le macerie spuntano i sacchetti per il rancio con la scritta Armia Rossii, esercito russo, i biglietti da visita di chi lavorava al centro di controllo, cartelle, documenti: il mondo scoppiato del 24 febbraio. “I nostri uomini che sono stati fatti prigionieri, al ritorno ci hanno raccontato due cose. La prima è che i russi non smettevano di domandare: ‘Perché ci avete sparato?’. Erano sbigottiti. La seconda è che avevano il compito di recuperare i cadaveri. Soltanto il primo giorno di raccolta ne hanno contati ottanta”. 

 

  
Antonov 2 non si aspettava questo tipo di attacco, e ancora cerca di ricostruire le ragioni della scelta, forse, dicono, i russi avevano bisogno di un aeroporto a est: la via più breve per entrare a Kyiv e catturare Zelensky. Un aeroporto militare sarebbe stato più  protetto. Altri nella zona sono troppo piccoli per l’uso che volevano farne. Poi c’è la storia nella storia: la Antonov, l’azienda ucraina, fiore all’occhiello dell’Unione sovietica, che i russi hanno sempre invidiato e che al settore militare ha affiancato quello civile. “Abbiamo un detto – ci ha spiegato un funzionario della compagnia statale – anche una bottiglia di Coca-Cola può essere sia militare sia civile. Dipende da cosa ci metti dentro: benzina o Coca-Cola. Così sono i nostri aerei”. Antonov ha resistito, Kyiv, un anno dopo, è salva. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.