Il cimitero di Lychakiv (Foto AP Photo/Nariman El-Mofty)

reportage

A Leopoli intorno alla bara di Marian, figlio dell'Ucraina ucciso in Donbas

Micol Flammini

Nella chiesa dei Santi apostoli Pietro e Paolo vengono celebrati i funerali dei soldati uccisi dall’aggressione di Mosca. Il ritratto sorridente di un ragazzo con l'elmetto, la sua storia e la storia di un paese raccontata dai suoi caduti 

Leopoli, dalla nostra inviata. In Unione sovietica non c’era posto per le chiese, e siccome bisognava trovare invece il posto per i libri, qualcuno pensò che fosse una buona idea usare i templi svuotati del sacro per riempirli di scienza. Questa sorte era toccata anche alla chiesa dei Santi apostoli Pietro e Paolo a Leopoli, uno dei baluardi del cattolicesimo in un paese prevalentemente ortodosso.  

Tra le sue pareti vennero stipati circa duemila volumi, le immagini sacre vennero portate via, i muri finirono per perdere l’intonaco. Il tempo dalla fine della Guerra fredda all’inizio dell’invasione non è bastato per restaurarla del tutto e oggi al suo interno vengono celebrati i funerali dei soldati uccisi dall’aggressione di Mosca. Tra bandiere blu e gialle, pezzi di missili, volti di Cristo, si susseguono le foto di chi è morto dal 2014 a oggi: prima il conflitto del Donbas, poi quella che gli ucraini hanno preso a chiamare la guerra grande, iniziata il 24 febbraio dello scorso anno.

Il momento prima del funerale di un soldato è preceduto da un richiamo muto che sembra spargersi per Leopoli. I commilitoni attendono di fronte alla facciata della chiesa, in riga, uno regge la bandiera, uno la croce, al centro c’è l’addetto alla foto: il ritratto sorridente di un ragazzo con l’elmetto. L’immagine è luminosa, a Leopoli c’è il sole. Chi vede i soldati si ferma, qualcuno si allontana e torna con un mazzo di fiori legati da un nastro nero. La fila si fa lunga, amici, parenti e sconosciuti si confondono, tutti ordinatamente in silenzio dietro ai due preti vestiti di nero, che attendono, come tutti, l’arrivo di uno dei “figli dell’Ucraina” morto al fronte. Non bisogna morire per essere “figli dell’Ucraina”, ma i figli vivi sentono il peso dei figli morti e i primi arrivano per assistere al funerale dei secondi al ritmo di una marcia civile stringendo in mano fiori dai colori accessi: tutti dietro alla bara del soldato caduto in battaglia.

C’è un codice, un non detto, ma è durante la funzione che i conoscenti e gli sconosciuti si dividono. Parenti e amici si dispongono in piedi attorno alla bara, gli altri si mettono a distanza, portano le loro lacrime lontano, si sparpagliano in fondo alla chiesa per ascoltare, pregare, conoscere il nome, sapere dove combatteva, affacciarsi tra gli ultimi ricordi di un ucraino fino a quel momento sconosciuto.

Si chiamava Marian, era nato nel 1993, si era laureato in Ingegneria informatica. Aveva partecipato alla liberazione di Kherson l’11 novembre poi era andato nel Donbas, dove è stato ucciso. Queste le parole del prete, l’identikit, la descrizione veloce che non ha bisogno di sbavature: “Ora andiamo avanti con la nostra preghiera”, dice. Immaginare Marian tra le bandiere festanti di Kherson libera, chiedersi se fosse tra quei soldati entrati in trionfo, accolti dalla musica, dagli slogan, dalle angurie, pensare agli abbracci che avrà ricevuto dai quei cittadini che avevano subìto l’occupazione dai primi giorni, è quello che la liturgia non dice: dentro alla chiesa di Pietro e Paolo, tempio dei saluti ai soldati, tutti piangono insieme, tutti ricordano insieme, e chi di Marian non ha ricordi, lo immagina e si inginocchia al passaggio della sua bara quando viene portata via.

Marian viene accompagnato da conosciuti e sconosciuti in grandi autobus gialli messi a disposizione di chi ha partecipato al funerale, la sua bara viene avvolta nella bandiera, che sventola al ritmo della marcia militare che lo conduce fino al cimitero di Lychakiv. Lychakiv raccoglie le spoglie di molti degli uomini morti in guerra che provenivano dall’oblast di Leopoli, prima dentro le mura del cimitero c’era un posto dedicato ai soldati, ora quello spazio non è più sufficiente, sono tanti, non basta dire troppi: anche un solo caduto sarebbe stato troppo. Da dopo l’estate, fuori dalle mura del cimitero è stato ricavato uno spazio nuovo, ogni fila che viene aggiunta è una nuova tacca di inaccettabilità. Poco distanti ci sono poeti, religiosi, professori, soldati della Seconda guerra mondiale, i manifestanti di Euromajdan. C’è la storia dell’Ucraina raccontata dai suoi caduti: nomi, cognomi, date di nascita, silenzi. Un paese che lotta per sopravvivere è costretto a ricordare la morte più di altri.

Il posto di Marian è nel secondo settore fuori dalle mura, sesta fila, ultimo a sinistra, tra i colori dell’Ucraina e quelli delle forze armate. La bandiera che lo avvolge viene piegata, messa nelle mani di sua madre, che prima di riceverla si inginocchia davanti alla bara, davanti ai soldati e alla bandiera. La tiene stretta a sé, così colorata tra le sue vesti nere. La porterà a casa, forse la disporrà in quella che era la camera da letto di Marian, tra i ricordi, i libri, i giochi, i quaderni, i vestiti di una vita fa, quando lo cresceva come figlio: suo e dell’Ucraina.
 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.