Bashar el Assad con la moglie Asma in visita fra le macerie di Jable, sulla costa siriana (foto LaPresse)

dopo il terremoto

Il dittatore e il jihadista, la Siria in macerie fra due mali opposti

Luca Gambardella

Da una parte Assad a Damasco, dall'altra Jawlani a Idlib, diversi in tutto ma con un obiettivo in comune: sedersi a un tavolo con l'occidente

Bashar el Assad e Abu Muhammad al Jawlani non potrebbero essere più diversi fra loro. Il primo è il dittatore della Siria che da oltre 20 anni ha dimostrato al mondo di non avere remore nell’impiegare armi chimiche contro la popolazione inerme. Il secondo è un ex combattente del fronte al Nusra, un tempo affiliato ad al Qaida e su cui pende ancora oggi una taglia dell’Fbi da 10 milioni di dollari. Nel 2016 ha rinnegato il suo giuramento di fedeltà e la sua milizia Hayat Tahrir al Sham (Hts) è diventata autonoma e si è messa a combattere contro il Califfato nel nord della Siria. La sua “terza via” dell’islamismo gli è valsa la definizione di leader pragmatico e opportunista, colui che avrebbe “liberato” il fronte islamista dalla rigidità ideologica originaria di al Qaida e Stato islamico.

 

  

A nord-ovest, è proprio Jawlani ad avere consolidato la sua posizione negli ultimi mesi. Nello spicchio di terra che da Aleppo sale fino al confine turco, fra Idlib e Afrin, Hts è il braccio armato del Governo di salvezza nazionale, uno “stato nello stato” ben strutturato e diviso in ministeri, con un budget e una struttura di welfare a sostegno della popolazione locale. Hts si impegna anche in opere pubbliche e qualche mese fa ha inaugurato una nuova superstrada che collega Aleppo al valico di frontiera di Bab al Hawa. Da quella via di passaggio che scavalla in Turchia transitano gli aiuti umanitari dell’Onu, ma anche gasolio e denaro su cui le milizie di Jawlani spesso riescono a mettere le mani per ridistribuirli secondo i loro personalissimi criteri di opportunità. Nessuno riconosce formalmente l’autorità di Hts, ma molti sono stati costretti ad avere a che fare con loro. In primis la Turchia, che alla fine dello scorso anno ha avallato tacitamente l’espansione della milizia fino ad Afrin. Poi c’è la comunità internazionale e le ong, che devono interfacciarsi con Jawlani per operare nell’area. E c’è anche l’Italia, che con un’operazione sottotraccia, lo scorso novembre, ha ottenuto  la liberazione di Bruno Carbone, un narcotrafficante camorrista catturato da Hts a Idlib durante la sua latitanza. 

      

 Abu Muhammad al Jawlani 

 

Ma tutto questo a Jawlani non basta. A lui interessa che il Governo di salvezza nazionale sia formalmente riconosciuto a livello internazionale, rimuovendo le sanzioni economiche imposte da Stati Uniti e Ue. Per farlo, il terremoto di dieci giorni fa  è la tragica occasione per ottenere ciò che il leader di Hts desidera. Le autorità di Idlib hanno messo in piedi un sistema piuttosto efficiente per offrire assistenza agli sfollati. Un sistema che i canali social della milizia non hanno mancato di pubblicizzare, dando aggiornamenti continui sugli ospedali attivi, sulle persone recuperate dalle macerie, sugli aiuti distribuiti alla popolazione. Lunedì, Jawlani ha anche rilasciato un’intervista al Guardian in cui ha criticato l’inerzia delle Nazioni Unite,  troppo lente nel portare aiuti umanitari nel nord-ovest della Siria. Il messaggio per l’Onu era uno: sono io il referente in quell’area, non sono l’estremista di una volta, che aspettate a inviare aiuti? 

  

Dall’altra parte c’è Assad, il dittatore, che è alla ricerca della stessa cosa: essere considerato un interlocutore. Finora ha ottenuto aiuti umanitari da decine di paesi, fra cui Russia, Cina, Emirati Arabi Uniti e – pochi giorni fa – Unione europea. Il problema è che anche lui, come Hts al nord, in questi anni ha usato le risorse internazionali dirette alla ricostruzione e al sostegno alla popolazione per arricchire se stesso e il suo entourage. Per questo gli Stati Uniti hanno preferito ottenere l’apertura di altri valichi a nord, piuttosto che fare arrivare alti aiuti a Damasco. Ieri Assad ha incontrato il responsabile della risposta umanitaria delle Nazioni Unite, Martin Griffiths, e ha acconsentito ad aprire altri due passaggi alla frontiera turca, quelli di Bab al Salam e al Rai, in via temporanea per tre mesi. Un via libera inutile, perché di fatto Assad non controlla quella zona da anni. In serata, un giornalista di al Jazeera ha chiesto in conferenza stampa all’ambasciatore siriano alle Nazioni Unite, Bassam Sabbagh, perché avessero aspettato oltre una settimana per dare il loro consenso all’apertura dei valichi. Il diplomatico ha sorriso e ha detto: “Che domanda… Noi non controlliamo quei confini”.

 

Il rappresentante dell’Onu Griffiths, che domenica aveva riconosciuto pubblicamente il fallimento della risposta internazionale nel consegnare aiuti nel nord-ovest della Siria, è stato molto criticato per i suoi incontri recenti con gli esponenti del regime siriano, da Aleppo a Damasco. Ma forse, più realisticamente, non potrebbe andare altrimenti. Chiedere ad Assad il permesso di aiutare gli sfollati e riconoscergli autorità dove non ne ha significa chiedere il permesso a Vladimir Putin, colui che davvero tiene in piedi il regime siriano e decide dell’apertura o della chiusura dei valichi di frontiera a nord con il suo veto al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Una resa per tutti. Per l’occidente, ma soprattutto per le migliaia e migliaia di sfollati siriani che in alcune aree del nord, a dieci giorni dal disastro, a oggi non hanno ricevuto ancora nemmeno un cartone di aiuti dalla comunità internazionale. 

  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.