(foto EPA)

i fatti di brasilia

I bolsonaristi si schierano con Lula. Ma chi c'è allora dietro l'assalto in Brasile?

Maurizio Stefanini

Tra l'ex presidente malato e il bolsonarismo politico che si dissocia si intravede un bolsonarismo sociale e sparso invece ben attivo e con risorse, alla ricerca di un nuovo alfiere su cui puntare

Ventitré dei ventisette governatori del Brasile si sono riuniti con Lula e con i presidenti delle Camere e del giudiziario. Scendendo simbolicamente dalla rampa del palazzo presidenziale di Planalto verso il supremo tribunale federale, hanno dato a Lula il loro pieno appoggio contro quella che lo stesso ministro della Giustizia Flávio Dino ha definito ormai con terminologia ufficiale “la Capitol Hill” brasiliana, pur sottolineandone anche le differenze. “Nessun morto, ma molti più arrestati”. 

Il fatto acquisisce un importante significato se si ricorda che il grande successo dei candidati bolsonaristi nella corsa per i governatorati era stato una delle chiavi delle elezioni di ottobre, anche se ovviamente è stato poi dato maggior risalto alla vittoria, pur di misura, di Lula alla presidenza. Al primo turno furono nove bolsonaristi contro cinque lulisti e un terzista che però poi appoggiò Bolsonaro al ballottaggio. E alla fine sono risultati almeno 14 su 27, anche se certe etichette in Brasile sono sempre piuttosto ballerine, e per esempio il partito di destra União Brasil, che ha quattro governatori, dopo essere stato con Bolsonaro ha ora con Lula tre ministri. 
Il governatore più importante è, per peso demografico e economico del suo stato, Tarcísio Gomes de Freitas, di San Paolo. E lui è non solo un ex ministro dell’Infrastruttura di Bolsonaro, ma come lui, un ex militare. Un geniere formato all’Accademia. E’ stato lui a parlare con forza di “pacificazione”, perché “la democrazia brasiliana diventi ancora più forte” attraverso “gesti di tutti i poteri e dei governatori”.

Ma anche alle elezioni politiche le forze bolsonariste avevano avuto un grosso risultato al Congresso, eleggendo infatti i presidenti di entrambe le camere. Dopo che quello del Senato Rodrigo Pacheco si era coordinato con Dino per affrontare l’assalto ai palazzi del potere, adesso quello della Camera Arthur Lira ha detto nella stessa riunione che “le istituzioni non si fermeranno”  e che si prenderanno misure contro “questo gruppo che ha cercato di piegare la democrazia”. Insomma, si conferma che tutta la dirigenza della coalizione bolsonarista prende le distanze più nette dalla fallita sommossa: grossa differenza rispetto alle ambiguità dei repubblicani con l’assalto al Congresso americano del 6 gennaio 2021.  

 

Le distanze le ha prese anche Bolsonaro, pur tenendo a ricordare che lui non c’entra niente e che in passato manifestazioni eversive le aveva fatte anche il partito di Lula, il  Partido dos Trabalhadores (Pt). Tecnicamente vero, ma non fino a quei livelli.  Bolsonaro dopo l’assalto a Brasilia è stato ricoverato in ospedale per problemi addominali: è stato dimesso quasi subito, ma il suo non è stato sicuramente l’atteggiamento di un leader che affronta la tempesta. La sua leadership sembra ormai cosa del passato. Dai democratici americani si spinge per espellerlo (tornerà comunque in Brasile a  febbraio), ma tenendo conto del modo in cui Trump continua a dare battaglia, è questa una ulteriore differenza rispetto al 6 gennaio 2021 di Washington. Forte dunque il dubbio che fosse in condizioni anche solo fisiche per aver potuto avere una qualche regia effettiva in quello che è successo l’8 gennaio scorso al Congresso brasiliano.

Impossibile, però, che tutto sia avvenuto per mera autocombustione sui social. “Io sono specialista in accampamenti e in scioperi ed è impossibile stare due mesi senza avere finanziamento per assicurare il pane di tutti i giorni”, ha osservato Lula.  “Ancora non è possibile distinguere chiaramente le responsabilità riguardo al finanziamento, ma quel che si può affermare sicuramernte è che c’è stato un finanziamento”, dice anche Dino. Lo stesso Dino ha informato che il governo ha redatto una lista di contrattisti di autobus, e che tutti verranno chiamati a deporre sul motivo per cui “i bus sarebbero stati noleggiati e non destinati a escursioni turistiche”.

 

Ma chi è che ha pagato, se i leader dei partiti bolsonaristi si schierano con Lula e se Bolsonaro appare in disarmo? Si è già tirata dentro la rete complottista di Bolton, ma quella può avere provveduto al software ideologico delle manifestazioni, non al loro hardware. Una fonte in Brasile, critica sia con Lula che con Bolsonaro, dice al Foglio che “si sa benissimo chi ha pagato i pullman, sono imprenditori agrari del Mato Grosso e di Goiás”.  Il mistero secondo questa analisi sarebbe semmai sul comportamento delle forze dell’ordine e dell’intelligence, che avrebbero dovuto tenere sotto controllo la protesta e che invece hanno lasciato fare. Insomma, tra Bolsonaro malato e il bolsonarismo politico che si dissocia si intravede un bolsonarismo sociale e sparso invece ben attivo e con risorse, alla ricerca di un nuovo alfiere. 

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