L'assalto al palazzo a Brasilia non è il 6 gennaio

Paola Peduzzi

L’eversione trumpiana è un’altra cosa, e c’è chi la tiene in vita: ne è la prova la nomina dello speaker della Camera Kevin McCarthy che nel suo primo discorso dopo la sospirata elezione ha ringraziato pubblicamente Trump e il suo lavoro

Il paragone tra l’assalto ai palazzi delle istituzioni brasiliane dell’8 gennaio scorso e l’assalto al Congresso americano del 6 gennaio 2021 è immediato ma sbagliato. Il filo rosso che lega i sostenitori dell’ex presidente Jair Bolsonaro a quelli di Donald Trump è ben visibile: è fatto di disprezzo per le istituzioni, per i processi democratici, dalle elezioni al riconoscimento del loro esito, ma la violenza del 6 gennaio e la complessità del piano eversivo ideato da Trump non sono paragonabili alle due ore di saccheggi e selfie degli assalitori di Brasilia. 

  

Le indagini ci diranno quanto era organizzato l’assalto ai palazzi del potere in Brasile, chi lo ha pianificato e con quali obiettivi, ma intanto: i palazzi erano vuoti; le forze dell’ordine hanno evacuato in poco tempo gli assalitori; non ci sono stati morti; il nuovo presidente Lula ha già giurato il primo gennaio, e Bolsonaro è quindi un ex presidente. Più che un’eversione, l’assalto brasiliano sembra un gesto dimostrativo: è grave, può essere un esempio per altri movimenti similtrumpiani e mostra ancora una volta che la solidità dei processi democratici non può essere mai data per scontata. Ma il 6 gennaio fu tutta un’altra cosa, e non va dimenticato perché i suoi effetti sono ancora adesso, due anni dopo, molto concreti. Quel giorno, una folla armata (e in parte in assetto militare) è entrata di forza e ha occupato il palazzo del Congresso mentre si teneva la certificazione ufficiale della vittoria elettorale di Joe Biden: tutti i deputati e i senatori erano presenti e si sono dovuti nascondere, il processo di certificazione è stato interrotto (che era quello che volevano i rivoltosi), ci furono cinque morti, 138 poliziotti feriti e quattro di loro, nei sette mesi successivi, si sono suicidati. Trump era ancora il presidente e poche ore prima dell’assalto aveva fatto un discorso ai manifestanti chiedendo di fare giustizia e di fermare l’impostore Biden.

 

Ora sappiamo anche molti altri dettagli che confermano l’istigazione deliberata dell’ex presidente – il quale non ha mai preso le distanze dai rivoltosi, né sul momento né dopo (cosa che Bolsonaro ha fatto). Anzi, nel giro di qualche giorno, lo sconvolgimento e le condanne di quell’atto eversivo erano già finiti: se si guardano le rilevazioni sui conservatori fatte nella settimana successiva all’assalto al Congresso, lo si vede già molto bene. Il 6 gennaio è diventato il mito fondativo del trumpismo post Casa Bianca e per quanto questo movimento sia in declino, come dimostra l’esito delle elezioni di metà mandato a novembre, non è affatto finito. Ne è la prova la nomina (tormentata, grottesca, penosa) dello speaker della Camera, Kevin McCarthy che nel suo primo discorso dopo la sospirata elezione (quindici votazioni, colluttazioni in Aula) ha ringraziato pubblicamente Trump e il suo lavoro per convincere i deputati riottosi a quietarsi. Giochi di potere dentro al Partito repubblicano, si dirà.

 

No: lunedì McCarthy ha presentato il documento di 55 pagine che declina le priorità dei repubblicani per questa legislatura. Ci sono tre pagine aggiuntive che fino alla settimana scorsa non c’erano: contengono le concessioni che ha dovuto garantire McCarthy per ottenere il sostegno dei deputati ultratrumpiani. Posti nelle commissioni, tagli alle spese della Difesa mentre è in corso una guerra che gli ucraini non possono vincere senza il sostegno degli americani (McCarthy aveva già detto che gli “assegni in bianco” a Kyiv sarebbero finiti), tagli alle spese sociali, proposte per irrigidire le norme sull’aborto e altro ancora. Per fare i conti con l’eversione del 6 gennaio non basta perseguire i rivoltosi violenti e il regista Trump: c’è un partito che non ne riconosce la spinta antidemocratica, che ha la maggioranza al Congresso e che ha come leader McCarthy, un repubblicano di lungo corso che ha appena dimostrato che è disposto a riesumare il trumpismo in qualsiasi momento, se gli è utile. 

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi