Foto di Jose Luis Magana, AP Photo, via LaPresse 

minoranze decisive

Che cosa vogliono da McCarthy i venti estremisti al Congresso, sfuggiti di mano pure a Trump

Giulio Silvano

Era dal 1923 che la terza carica americana non veniva eletta al primo voto. Gli ostruzionisti avanzano richieste non da poco. E l'ex presidente ha sempre meno voce in capitolo. La crisi del Partito repubblicano

Il vecchio establishment del Partito repubblicano ha delle responsabilità nell’aver permesso ai populisti di arrivare a Washington, e fino a novembre non ne aveva pagato davvero le conseguenze. Il primo effetto è stato la batosta alle elezioni di metà mandato che ha permesso al GoP, con voti risicati, di avere la maggioranza solo alla Camera (222 contro 212 seggi), e non al Senato.

La seconda conseguenza la sta vivendo in queste ore ed è la mancata elezione di Kevin McCarthy alle prime undici votazioni per diventare speaker della Camera. Era dal 1923, quando alla Casa Bianca c’era Warren G. Harding, che la terza carica più importante dell’apparato politico americano non veniva automaticamente eletta alla prima votazione.

Allora, un secolo fa, ci vollero ben tredici mesi tra l’elezione del nuovo Congresso e la nomina dello speaker. Nel frattempo Harding morì e Calvin Coolidge, il suo vice, diventò presidente. Fino a che lo speaker non è eletto il Congresso non può operare, è bloccato, anche sulle più piccole decisioni amministrative.

Un establishment di partito che ha permesso alla destra populista trumpiana di arrivare al potere vede il proprio candidato silurato da quella stessa destra che ha legittimato. I deputati della hard-right, molti figli del Tea Party, molti convinti che Donald Trump abbia vinto nel 2020 contro Joe Biden, quelli che stanno bloccando la Camera non chiedono poco. La loro richiesta è di ripensare il ruolo del governo nelle vite dei cittadini. In cambio del loro voto chiedono a McCarthy di inserire i deputati del blocco di destra dentro commissioni che hanno un forte impatto legislativo.

I loro obiettivi dichiarati sono: taglio consistente della spesa pubblica, alleggerimento dell’apparato federale, ripensamento del sistema di tassazione con conseguente smantellamento dell’Irs – l’agenzia delle entrate –, facilitazione del licenziamento di dipendenti pubblici e fortificazione massiccia del confine con il Messico. “Se non la smettiamo di spendere soldi che non abbiamo per finanziare la burocrazia che sta danneggiando il popolo americano, non possiamo vincere”, ha detto il deputato del Texas Chip Roy, uno dei principali oppositori di McCarthy.

Quelli che vengono chiamati “ribelli” sono solo una ventina, e stanno tenendo il Congresso in ostaggio. Trump mercoledì ha scritto sul suo Truth Social di votare McCarthy, che sostiene già da mesi, ma nessuno di questi deputati gli ha dato retta: è il segnale che i trumpiani sono sfuggiti dal guinzaglio del loro creatore e che l’ex presidente ha sempre meno voce in capitolo. E McCarthy fino a poco tempo fa era sicuro di diventare speaker al primo colpo – “me lo merito”, ha detto più volte con l’arroganza con cui è conosciuto a Capitol Hill. Non esistevano nomi alternativi, non ce n’era bisogno, e i “deputati ribelli” hanno votato diverse volte per il deputato afroamericano Byron Donalds, facendo anche il nome di Jim Jordan come possibile speaker. Jordan è uno di quelli che ha rifiutato di presentarsi davanti alla commissione che indagava sugli attacchi del 6 gennaio

Molti vedono questa piccola forma di resistenza come una dittatura della minoranza, altri come un capriccio inutile che ritarda semplicemente il lavoro dell’organo legislativo, altri come l’influenza che può avere la nuova destra populista all’interno delle istituzioni. Ma in fondo, a livello procedurale, la lotta interna tra quelle che in Italia si chiamano correnti, una lotta alla luce del sole, trasparente, è un pezzo fondamentale del processo democratico – lo stesso processo che i repubblicani trumpiani volevano distruggere due anni fa, con l’assalto al Congresso.

Quello che stiamo vedendo oggi è, con una prospettiva più ampia, la rappresentazione della crisi del Partito repubblicano. E ci dice tra l’altro, guardando al futuro, che l’incapacità di accordarsi porterà sicuramente ad altri disaccordi e stalli nei prossimi due anni, rendendo probabilmente impossibile il passaggio di leggi bipartisan. Dall’altra parte, i dem, sono arrivati con la loro lista già selezionata che è stata immediatamente votata dai deputati del partito, rafforzando il cliché spinto dalla destra, che vede il Partito democratico come un luogo in cui l’establishment tecnocrate decide tutto, senza ascoltare i quadri inferiori.

Nonostante la paralisi, non si può negare che quello che sta avvenendo oggi a Washington è – anche – parte del processo democratico che sembrava sull’orlo del collasso soltanto due anni fa.

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