Foto di Mast Irham, via Ansa 

un paese in cambiamento

Addio all'Eden sull'isola di Bali con il nuovo codice penale. La sharia sbarca in Indonesia

Massimo Morello

Rapporti sessuali solo tra coniugi. Blasfemia punita con cinque anni di carcere. L'islamizzazione dell'arcipelago va verso la sua conclusione, mentre il paese si conferma una delle tessere principali nel gioco tra Cina e Stati Uniti

Bali offre tutte le attrattive di un Eden. Fanciulle inconsapevoli della loro bellezza si bagnano in corsi d’acqua, si ornano i capelli con i fiori dell’ibisco rosso e si avvolgono attorno al morbido corpo sarong di seta. “La natura si è trasformata in arte, tutto è armonia” annotava lo scrittore Pico Iyer in C’era una volta l’Oriente. C’era una volta, ed era solo il 2000. Oggi quel paradiso sembra perduto.

 

Secondo il nuovo codice penale indonesiano, approvato all’unanimità il 6 dicembre, i rapporti sessuali sono consentiti solo tra coniugi e l’infrazione alla regola è punita con un anno di carcere. Sei mesi per la coabitazione, provvedimento che sembra destinato a colpire soprattutto la comunità Lgbt, dato che il matrimonio tra persone dello stesso sesso non è consentito.

 

L’isola di Bali, proprio in quanto paradiso turistico (tanto che molti la considerano una sorta di isola anche in senso extranazionale) già pesantemente colpita dalle restrizioni pandemiche, rischia così di perdere milioni di visitatori. Le rassicurazioni del governo, secondo cui la legge si applica solo su denuncia di un familiare, sono viziate dal principio stesso della legge: tutelare “i valori indonesiani” ispirati al Pancasila, i cinque princìpi ritenuti inseparabili e interdipendenti su cui si fonda la filosofia politica indonesiana. Il primo precetto stabilisce “Ketuhanan Yang Maha Esa”, la fede nell’unico e solo Dio, la fede praticata dall’87 percento della popolazione, l’islam. In base a questo principio e al nuovo codice penale, la blasfemia può essere punita con cinque anni di carcere.

 

Si conclude così l’islamizzazione dell’arcipelago indonesiano, iniziata nel XVI secolo con il declino dell’illuminato regno dei Majapahit e l’occupazione di Giava da parte delle truppe del re musulmano Demak. Alla ricerca di un luogo dove ricreare la religione e la cultura dei padri e sfuggire al potere dell’islam vi fu un esodo di sacerdoti, saggi, artisti, danzatori, musicisti e appartenenti alla classe colta verso la colonia di Bali. L’Eden nacque così e con esso un’originale religione, definita hindu–dharma, che coniuga il culto hindu di Shiva e il buddismo di scuola Mahayana. Col nuovo codice penale, che si presta a molte interpretazioni, non è così sicuro che la religione hindu-dharma rientri tra le sei religioni (islam, protestantesimo, cattolicesimo, buddismo e confucianesimo) riconosciute e tra le quali ogni cittadino deve aderire al compimento dei 17 anni se non vuole essere dichiarato ateo e quindi rischiare una denuncia per blasfemia.

 

La definizione dell’Indonesia quale “terza più grande democrazia al mondo” (dopo India e Stati Uniti), tanto declamata in occasione dell’ultima riunione del G20 svolta a Bali, appare sempre più vuota di significato, dettata da ragioni economiche e strategiche. Con una popolazione di 276 milioni di persone sparse su migliaia di isole che compongono un vero e proprio arco Indo-Pacifico, l’Indonesia è una delle tessere fondamentali nel grande gioco tra Stati Uniti e Cina. Il nuovo codice penale, infatti, comprende norme che limitano la libertà d’opinione, e conferisce maggior potere alle forze più conservatrici del paese, quelle che vogliono la costituzione di uno stato basato sulla sharia. Una tendenza che è andata sempre più diffondendosi, dimostrata anche dalle violenze nei confronti delle comunità cristiane e dalla pressione sulle donne affinché si adeguino alle norme d’abbigliamento islamiche. Ultimo segnale del nuovo corso è il rilascio sulla parola di Umar Patek, uno dei leader del gruppo terroristico Jemaah Islamiyah responsabile degli attentati di Bali che nel 2002 provocarono la morte di 202 persone, nella maggior parte giovani. Arrestato in Pakistan nel 2011, era stato condannato a vent’anni. 

 

Lo stesso presidente indonesiano Joko “Jokowi” Widodo, rappresentante dell’islam che in occidente viene definito “moderato”, si sta progressivamente appoggiando ai gruppi più tradizionalisti, forse sperando nel loro sostegno una vota concluso il suo mandato: non è un segreto che stia puntando alla carica di segretario generale delle Nazioni Unite. Allo stesso modo il nuovo primo ministro della Malesia Anwar bin Ibrahim sta cercando anche l’appoggio “esterno” del Parti Islam Se-Malaysia (Pas), il partito fondamentalista malese che ha per obiettivo l’instaurazione della sharia. Non può non tenerne conto, considerando che il Pas ha vinto 49 seggi, il numero più alto per un singolo partito.  

 

Intanto in Thailandia, le indagini sul PuloG5, un nuovo gruppo integralista islamico che organizza attentati nel sud del paese, porterebbero a sospettare che i militanti siano addestrati all’uso delle bombe in una “nazione vicina”. Al suo confine c’è la Malesia. Più a sud, oltre lo stretto di Malacca, l’Indonesia.

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