docu-lamentario
La serie su Harry e Meghan è l'eterno ritorno dell'eguale. Niente sorprese, solo lagna e rancore
È perfido ma non troppo chi pensa sia tutta una questione economica. Ma in questa giostra di accuse che il duca rivolge a nonni, genitori, fratelli i due sposi restano abilissimi tessitori di trame. E quasi quasi, oltre il business e i piagnistei, pongono un tema di male metafisico
Non che sia un genere nuovo il docu-lamentario. Ma è esattamente quello che cataloga i duchi di Sussex su Netflix. “Harry e Meghan”, la miniserie, è disponibile questa settimana coi primi tre episodi. Primi tre assaggi che potete gustare soprattutto se il piantino è per voi catarsi. Se invece siete amanti della trama, del brivido imprevisto, non dite che non eravate avvisati. Perché non ci sono sorprese in queste nozze interraziali, in questo miscuglio di pelli divenute negli anni un pudding al rancore.
Harry e Meghan sono due scaltri faiseur, due faccendieri che sanno bene come arrabattarsi. È dunque perfido ma non troppo chi pensa sia tutto business (100 milioni di dollari per l’appena sfornata serie tv). Ma in quest’eterno ritorno dell’eguale, in questa giostra di accuse che il duca rivolge a nonni, genitori, fratelli, a mogli a buoi dei paesi suoi (avendo usato lui il metodo opposto), i due sposi restano abilissimi tessitori di trame. E quasi quasi, oltre il business e i piagnistei, pongono un tema di male metafisico.
Guardateli bene e mano a mano scorgerete negli occhi un bagliore luciferino. La malizia di una Lady Macbeth scritturata in odor di blackwashing. L’ingenuità di un tontolone figlio di re che – a proposito di re – parla come un tronista di Uomini e donne: “Ho sposato Meghan scegliendo con il cuore, non con la testa”.
Posto che per sposarsi di solo cuore sole e amore si dev’essere cresciuti a Disneyland più che a Buckingham Palace, tutta la serie viaggia comunque su un doppio binario. Da un lato l’impresa eccezionale della normalità: lei nella casetta in Canadà col turbante arrangiato in testa e poi coi jeans sciccosamente sdruciti sulle ginocchia; lui che, tornato da Londra a Vancouver, parla del loro incontro su Instagram e rivendica: “Io sono figlio di mia madre”; e dunque Lady D – a tutela del santuario domestico – che sempre torna e tormenta come una sposa fantasma i Mountbatten-Windsor.
Da una parte, quindi, lo sforzo di conquistare i common people, quelli che vogliono riconoscersi nell’idea (ormai modernariato mentale) di pensare che una gabbia dorata di pranzi ufficiali e favolosi gin tonic non sia poi meglio delle proprie case Ikea, dei bicchieri Tiger (quando va bene) o delle pizze d’asporto: altrimenti perché quei due se ne sarebbero andati? Dall’altro lato, una volta ammansiti i semplici, si vede rifulgere il male metafisico di cui dicevamo. Quello di una vendetta meditata, lenta. Come in un dramma antico appena cominciato. Con un figlio che spera di arrivare là dove non poté Diana. Là dove probabilmente non potrebbe neppure lui, un po’ tardo com’è (“Io sono figlio di mia madre”, parole sue), se non ci fosse lei.
Meghan Markle ha perfezionato la tecnica di guerra al monarca dove tutto dipende dalla mistica del capotribù nella capanna. Meghan lo sa che quando la tribù vede all’interno della capanna l’intero sistema rischia di essere danneggiato e la tribù è finita. Ed è questo lo scopo della serie: il re nudo. Il capotribù nella capanna. Meghan e Harry hanno però un vantaggio rispetto al vetriolo sempliciotto di Diana. È quello di una donna straniera e maestra nel docu-lamentario. Lagnosa ma più forte e più scaltra della suocera. E non da ultimo più nera. In linea quindi con tutti gli umori del tempo.
E chissà se Dio salverà il re da questa Lady Macbeth nera quanto basta per smuovere torme di cancellisti e costruire un processo ai colonizzatori sino alla Regina vergine. Chissà cosa potrà la corona contro una donna che già cova un’arma nucleare nell’empatia.
la sconfitta del dittatore