Foto Epa via Ansa

È morto Jiang Zemin, il “vaso di fiori” che traghettò la Cina fuori da piazza Tiananmen

Siegmund Ginzberg

L'ex presidente della Repubblica popolare cinese aveva 96 anni. Aveva incoraggiato la crescita, la globalizzazione, l’ascesa della Cina mediante il soft-power economico, piuttosto che mediante i muscoli militari

Una foto del 2015 ritrae gli ultimi tre massimi leader del Partito comunista cinese mentre assistono alla parata militare dalla tribuna della porta Tiananmen. E’ già un programma. Al centro, con le mani sulla balaustra, come se fosse lui il capo, Jiang Zemin. Alla sua sinistra, più rigido, un tantino corrucciato, il suo successore Hu Jintao. Alla sua destra, mentre si rivolge a lui sorridente, con un accenno quasi di deferenza, Xi Jinping. Hu e Jiang sono in giacca e cravatta all’occidentale. Xi è l’unico in giacca alla zhongshan, giubba di foggia militare alla Sun Yat-sen, detta anche giacca “alla Mao”. Anche l’abbigliamento in Cina ha sempre avuto valenza simbolica e politica. La foto prefigura due leader che si si erano impegnati nella politica dell’“apertura”. E uno, Xi, che sceglie di restare abbarbicato alle tradizioni maoiste. Hu e Jiang erano i leader di un’epoca in cui la Cina era cresciuta ininterrottamente a rotta di collo, avviandosi a diventare potenza mondiale alla pari di Stati Uniti ed Europa (la Russia ha più atomiche, ma ha ormai un pil pari a quello del solo Elon Musk in America). Xi, se va avanti così, rischia di passare alla storia come il leader che l’ha fatta tornare indietro.

 

Jiang è morto ieri a Shanghai. Il comunicato ufficiale dice: causa leucemia e collasso di diversi organi. Fosse morto in Inghilterra avrebbero detto più elegantemente: di vecchiaia. Aveva 96 anni. Non lo si era visto al Congresso del Pcc che ha praticamente consacrato Xi leader a vita, facendolo saltare oltre il limite di due mandati quinquennali. Era evidentemente già in pessime condizioni salute. Hu invece è stato condotto via piuttosto malamente dalla sala dell’Assemblea del popolo dove si svolgeva l’assise. Aveva avuto un malore, hanno spiegato. Le immagini dicono semmai che ha resistito piuttosto caparbiamente alla rimozione dal suo posto alla presidenza, giusto accanto a Xi. Comunque, di lui non si è più saputo né visto nulla.

 

Xi era arrivato al potere assoluto (al trono imperiale, c’è ormai anche in Cina chi osa gridarlo in piazza) con l’aiuto di Jiang e Hu. Senza il loro consenso non avrebbe potuto diventare capo del partito, presidente della Repubblica e, soprattutto, presidente della Commissione militare del partito, la carica decisamente più importante in un paese in cui la sovranità nasce “dalla canna del fucile”, cioè dal controllo delle forze armate. In quest’ultima dinastia imperiale cinese, la dinastia del Partito comunista e unico, si ascende al vertice non per via ereditaria ma per cooptazione consensuale. Ma ormai, eliminati tutti gli altri capicorrente, poteva fare a meno dell’uno e dell’altro.

 

Il peso storico di un leader cinese nella storia si misura ai suoi funerali. Si tratta di occasioni altamente simboliche, in cui niente è lasciato al caso, viene seguito un preciso cerimoniale, si dosano accuratamente le parole e i titoli attribuiti al defunto, si può fare il punto su come stanno andando le cose osservando attentamente chi c’è e chi non c’è, e in quale ordine omaggia il defunto. Jiang è stato definito nei comunicati come “leader eccellente con un’alta reputazione”. Non è il massimo dei voti. Ci sono studiosi dei misteri della politica cinese che hanno compilato graduatorie filologicamente accurate del peso storico relativo dei massimi dirigenti a seconda di come vengono chiamati, dei titoli che gli vengono attribuiti. In cima per onori resta Mao, il fondatore della dinastia. Seguito da Deng Xiaoping, e, ormai, da Xi Jinping, con tutti gli altri uno o più passi indietro. Significativo anche che abbiano scelto di ricordare che Jiang ha guidato la Cina in un periodo di “massicce difficoltà e pressioni”, e “nei momenti critici ha mostrato eccezionale coraggio e preso decisioni risolute”. Le parole pesano come piombo. Jiang era stato messo da Deng Xiaoping a capo del Pcc subito dopo la strage di piazza Tiananmen nel 1989. Quindi era tra coloro che avevano condiviso la decisone di mandare i carri armati in piazza. Ad affiancarlo come premier era stato scelto Li Peng, quello che materialmente aveva dato l’ordine di sgombrare con la forza la piazza. L’ultima volta che si era visto Jiang in pubblico era stato in occasione, appunto, di un funerale, quello di Li Peng. Gli elogi funebri, specie quello di Xi Jinping, avevano esaltato l’intervento deciso e fermo a difesa degli interessi nazionali, a dispetto delle “pressioni straniere”, senza curarsi delle minacce di sanzioni e dei rischi di isolamento della Cina. Avevo pensato: oddio, ora usano la forza contro i manifestanti a Hong Kong. Non ce ne fu bisogno: risolsero arrestandoli uno ad uno, poi venne in Covid a sciogliere definitivamente la protesta. Se si esalta il decisionismo di Jiang, potrebbe voler dire che non butta bene per le proteste che stanno scuotendo la Cina.

 

Quel tipo di “fermezza” Jiang l’aveva applicata al movimento del Falun Gong, una “minoranza” di cento milioni di adepti, cultori di ginnastica più che di politica, che rischiava di affiancare, certo allora non sostituire il Partito unico. Per il resto, aveva incoraggiato la crescita, la globalizzazione, l’ascesa della Cina mediante il soft-power economico, piuttosto che mediante i muscoli militari. La sua base di potere era Shanghai. Non aveva un gran carisma. C’era chi lo definiva “vaso di fiori”, decorativo più che solido. Era stato accusato di aver favorito lo sviluppo delle regioni costiere a scapito dell’interno più povero. Ma deliziava gli ospiti italiani esibendo le sue doti canore in arie di Opera.

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